La prefazione che mi fece Giorgio Spreafico per il mio libricino di fiabe.
Dedicato "A mia mamma Elda che non mi ha mai parlato di streghe brutte e cattive".
Era tanto tempo fa, ma era anche ieri, erano
i giorni in cui i nostri ragazzi erano ancora piccoli e li tenevamo per mano,
sentendoci trasmettere da quella stretta morbida un tepore che ci inteneriva e
una fiducia che nulla mai avrebbe potuto incrinare.
Camminavano lenti
sui sentieri, misurando il nostro passo con il metro delle gambette corte delle
creature al nostro fianco, e avremmo voluto restare per sempre così, in quella
magica e perfetta formazione capace di mettere meravigliosamente in pari il battito
dei nostri cuori.
Cercavano parole,
allora. Le cercavamo per riempire di curiosità quelle testoline e dunque in
qualche modo per portarcele via, al sicuro, lontano dalla noia dei gesti
ripetuti e anche soltanto dal pensiero pesante della fatica. Ci servivano, le
parole, per trasformarci in complici non diversi da Peter Pan e Wendy, per
arrivare insieme ai nostri bimbi – grazie a un patto non dichiarato – oltre la
curva giù in fondo al sentiero, e da lì fino alla quercia grande del bosco, e
poi ai piedi del castagno che aveva inciso sulla corteccia un piccolo cuore
trapassato da una freccia, o ancora più avanti per approdare al grande sasso di
mezzavia nel quale una fata o chissà chi e chissà come aveva scolpito una sorta
di sedile, buono per tirare finalmente il fiato.
Era tanto tempo fa, ma era anche
ieri. Erano i giorni in cui, srotolate al ritmo dettato da quel cammino lento,
le nostre parole diventavano frasi e le nostre frasi diventavano fiabe.
Racconti di fantasia senza briglie né freni, nei quali poteva entrare tutto ma
anche il suo esatto contrario, perché bastava giusto un guizzo, una trovatina
quale che fosse, una cosa matta e ingenua pescata con spregiudicatezza nel
mazzo, per far diventare credibile anche ciò che credibile non era.
“Mi racconti una storia?” ci
chiedevano – chiedevano a noi grandi, papà, mamme o zii – i cuccioli che ci
trottavano al fianco. E noi raccontavamo, facevamo parlare pomodori, volare
patate prima intere e poi a fette, e non ci dimenticavamo mai di far camminare
le instancabili gambe di sedano che infatti andavano e tornavano dai loro orti,
sempre pronte a venirci dietro e persino a precederci su strade polverose e
lunghe, lunghe, lunghe. A volte andavamo a tentoni, altre no, perché il patto
delle fiabe poteva prevedere anche punti di passaggio obbligati: “Adesso quella
del merlo e della sua amica merlottina, che poi volano via e allora…” Ma certo,
adesso quella. E poi magari l’altra, con lo gnomo che spunta da…
Era davvero tanto tempo fa, ma per
fortuna era anche ieri, eravamo in montagna e poi tra le mura di casa, seduti
su un letto a rimboccare coperte, a strapazzare per scherzo i nostri bimbi,
solletico e carezze, smorfie e baci e risate che non finivano più. Fino
all’adesso però basta, all’adesso dormi, all’adesso chiudi gli occhi che sei
stanco, su da bravo che io ti racconto una storia.
Ce ne eravamo dimenticati? Certo
che no. Avevamo semplicemente lasciato quei ricordi in un angolo dei nostri
cuori. Stavano lì ad aspettarci, proprio come le gambe di sedano sempre pronte
a due passi dall’insalata. Per riportarci da loro ci volevano semplicemente
altre storie, storie che venissero a visitarci, invitandoci a salire sui
tappeti volanti della nostra memoria o forse della nostra vita, capaci di farci
scorrazzare su e giù, su e giù, con gli occhi sgranati.
Eccole qui, le fiabe spuntate
all’improvviso. Sono saltate fuori dallo zaino di un alpinista che quando è
appeso alle sue pareti sa essere più duro e resistente dell’acciaio, se è ciò
che serve, ma che lassù e poi quaggiù si porta dentro sempre anche un mondo di
zucchero filato, e allora – per quanto grande sia – in realtà forse non è mai
cresciuto troppo e di sicuro non è mai invecchiato.
Sono storie che camminano sempre
sulle gambe degli gnomi, ancora più corte di quelle dei nostri bimbi. Vengono
da valli lontane, misteriose e fantastiche, dove la vita è sempre essenziale,
sempre scandita dai ritmi della natura, sempre fatta di una dignitosa povertà
che basta a se stessa e in fondo non chiede altro, al punto che anche quando
incrocia ricchezze, quando le incrocia, puntualmente decide di spalmarle sul
mondo intero e non le tiene per sé. Ed eccoci lì, in posti dove la cattiveria
non esiste, dove non esistono neppure le fate perché bastano le streghe a fare
anche la loro parte, sempre belle e di gran cuore come sono, con le loro scope
che svolazzando spazzano via paure, risolvono problemi, raccolgono cocci di
sorrisi che una volta reincollati tornano sempre smaglianti.
E le montagne? Le montagne? Ci
sono anche loro, e del resto come potrebbe essere diversamente nelle fiabe di
un alpinista? Qualche volta sono altissime, vertiginose, circondate dalle
nuvole, ma semplici elementi del paesaggio. Altre volte vengono scalate con
leggerezza e coraggio da gnomini piccoli piccoli, il cui cuore però è grande.
Ci sono tesori, lassù in cima. Ma ci sono anche ai piedi delle pareti, o
sepolti nelle caverne di fondovalle. Bisogna solo trovarli.
Ma bisogna poi davvero? Non è così
difficile separarsene, subito dopo averci messo sopra le mani. Perché le cose
che contano davvero, nel mondo dove ci porta Ermanno, sono sempre altre: la
bontà, l’amicizia, la generosità, la tenerezza, la semplicità, la gratitudine.
Valori dei quali troppo spesso da questa parte del vetro, al di qua dello
specchio oltre il quale fatichiamo a guardare, ci dimentichiamo anche solo di
parlare. E infatti, infatti c’è un unico “cattivo” – quando c’è – in queste
fiabe nelle quali anche i lupi e i coccodrilli sono buoni: è l’uomo che sbaglia
sempre misure, tiro, desideri, pensieri e gesti, un nemico dal quale guardarsi
perché sembra non saper fare altro che attentare alla natura e alla pace.
E’ questo che vedono gli gnomi di
Ermanno là da dove ci guardano, dai loro sperduti villaggi ma anche dall’altro
lato del nostro stesso specchio. Chissà se quando leggeremo loro queste storie
i piccoli di casa vorranno sapere perché, loro che i perché li fanno zampillare
ogni momento come le fontane l’acqua. Ci chiederanno se quegli uomini siamo
proprio noi? Bisognerà prepararsi una risposta, e bisognerà almeno tentare di
essere all’altezza della fiducia che i bimbi ripongono in noi ogni volta che ci
tengono per mano.
GIORGIO SPREAFICO