Tratto da:
Vita da Climber – di Jim Donini
Autobiografia apparsa su Alpinist
N° 2 – marzo 2003
(traduzione di Mauro Penasa su Annuario CAAI, 2009)
Il primo tentativo di alpinismo
estremo non fece che risvegliare il mio appetito per le surreali torri di
granito della Patagonia. Nell’estate del 1973 trovai un redditizio impiego
presso l’Exum Guide Service, nel Grand Teton National Park, Wyoming, dove ebbi
occasione di subissare i miei compagni Steve Wunsch e John Bragg di storie
esagerate sul mio tentativo abortito di raggiungere la Patagonia. Una notte,
dopo un’eccessiva quantità di Jack Daniels, riuscii a convincere Steve e John
che noi avevamo le capacità e la testa per affrontare quelle torri viste solo
in fotografia. In autunno Steve decise che il denaro risparmiato sarebbe stato
speso meglio in una chitarra nuova, ma John, meno incline alla musica, si unì
al mio volo verso sud, determinato almeno a vedere quelle torri mitiche. La mia
prima visione del massiccio Fitz Roy-Torre resterà per sempre impressa nella
mia mente. Rilucenti guglie di monolitico granito coronate di ghiaccio
sorgevano come miraggi dalle ondulate steppe patagoniche. Sebbene sia non
credente, sentii che qualche energia suprema doveva aver messo mano alla
creazione di questa unica contrapposizione di ghiaccio e roccia, foresta e
deserto. Seppi in quel momento che sarei tornato spesso in questa aspra terra
battuta dal vento. Nel ‘73 il massiccio era ancora un posto davvero selvaggio.
Il villaggio di El Chalten non esisteva, e le corriere giornaliere da Rio
Gallegos erano lontane anni nel futuro. L’accesso era difficile e ogni
rifornimento inaffidabile.
(…) Nebbie agitate oscuravano i
picchi leggendari che eravamo venuti a scalare. Per tre settimane esplorammo la
ricca vita animale della foresta circostante con rare occasionali immagini
delle torri. Rimasi incantato dal picchio di Magellano, dai condor che
volteggiavano sopra di noi, dagli iceberg che si staccavano dal ghiacciaio
patagonico nel lago Viedma. Durante una puntata verso il Torre, notai una volpe
sul ghiacciaio che mi incuriosì per il suo concentrato affaccendarsi su un
terreno di solito poco remunerativo. Da più vicino la ragione divenne chiara,
in forma di tibia umana, ormai spolpata ma ancora infilata saldamente nello
scarpone. Sparsi intorno si trovavano altri oggetti: il manico rotto di una
piccozza e alcuni brandelli di corda testimoniavano della provenienza del
reperto.
In 16 anni il solo scalatore
scomparso in questa remota regione era il temerario austriaco Toni Egger,
travolto da una valanga di ghiaccio mentre tentava la prima salita del Cerro
Torre con Cesare Maestri. John ed io decidemmo di seppellire i resti nel
ghiacciaio del Torre, sentendo che l’eterno riposo di uno scalatore dovesse
proprio trovarsi in un posto così. La stampa austriaca ci criticò nettamente:
la loro sensibilità cattolica avrebbe preferito il recupero e la tumulazione in
un mausoleo dopo le cerimonie del caso.
(…) (DOPO IL TENTATIVO ALLA TORRE STANDHARDT) Benvenuti
in Patagonia! Argomenti trattati? Primo: fortuna – senza dubbio, se il fornello
non si fosse rotto, ci saremmo ritrovati sulla cima di una torre fino ad allora
vergine, in una meravigliosa e tiepida giornata di sole. Secondo: dolore –
inizia quando finisce la fortuna e arriva il vento, conosciuto qui come la
“Escoba de Dios”, a dar del suo meglio per scaraventarvi in un universo
parallelo. Terzo: talento – la più importante scoperta fu di possedere il dono indispensabile
a ogni vero alpinista: grazie a dio ho una memoria davvero corta. Tornai in
Patagonia l’anno successivo.
Nel dicembre 1975, Jay Wilson si unì
a me e a John. Un neofita del grande alpinismo, Jay non aveva la nostra
esperienza ma possedeva una capacità atletica superiore ed un carattere
socievole e instancabile che ne faceva un partner insostituibile. Eravamo di
ritorno, alla ricerca di un boccone più grosso. Il macabro ritrovamento delle
spoglie di Egger l’anno precedente aveva spostato la nostra attenzione verso la
torre inviolata e imponente a lui dedicata. Ora, con Jay, il nostro piano era
seguire la via Egger-Maestri per 750 metri fino al colle che separa il Cerro
Torre dalla Torre Egger e di proseguire fino alla cima lungo i successivi 400 metri
di liscio granito incrostato di ghiaccio. La nostra linea di salita era
costellata da una minacciosa serie di pericoli oggettivi. Passammo intere ore
fatalmente inermi sotto gli enormi funghi di ghiaccio che rivestivano le cime
del Torre e della Egger, mentre fissavamo le corde verso il Colle della
Conquista, così battezzato da Maestri. Il tiro in artificiale subito sopra il
colle, strapiombante e marcio, sorpassò tutto ciò che avessi mai incontrato in
Yosemite, con la differenza che le conseguenze di una caduta sarebbero state
terribilmente più serie. Come da copione la tempesta soffiava sempre più
intensa mentre ci avvicinavamo alla cima, ma noi eravamo troppo impegnati per
dare alla cosa tutta la considerazione che questa meritava, e poi avevamo una missione
da compiere. Dopo tre mesi di faticosa preparazione, rischiosa arrampicata,
estenuante attesa nelle settimane di tempesta, la nostra tanto castigata
squadra si fece finalmente strada attraverso il fungo di ghiaccio della cima,
per raggiungere uno dei luoghi più inaccessibili del mondo.
La prima ascesa della Torre Egger fu
per me una vera rivelazione ma significò anche disillusione. Scopersi l’importanza che riveste una
squadra forte e determinata. Mi resi
però anche conto che l’ambizione sfrenata poteva arrivare a modificare la
verità. Le immagini del Cerro Torre, probabilmente la cima più
impressionante della terra, e il racconto della sua prima ascensione mi avevano
chiamato in Patagonia. Nel ‘72, un articolo apparso sulla rivista Mountain
screditò il racconto della scalata di Maestri. Ken Wilson, l’autore
dell’articolo, sosteneva che Maestri ed Egger non potevano avere avuto
successo, per numerose ragioni. Il livello dell’arrampicata nel 1959 non era
sufficiente per quelle difficoltà, inoltre le avverse condizioni atmosferiche e
il tempo speso sulla via potevano solo aver causato il fallimento dell’impresa.
Ero dell’idea che bisognasse credere alle parole di uno scalatore, specialmente
se aveva la formidabile reputazione di uno come Maestri. Ma dopo aver salito la
loro linea al Colle della Conquista, fui costretto a formarmi un’opinione
differente. I segni del loro passaggio punteggiavano i primi 300 metri della
via. Chiodi, tratti di corda marcia e qualche occasionale chiodo a pressione
testimoniavano il loro passaggio. Tutto ciò terminava d’improvviso su una
piccola cengia ghiacciata, dove trovammo un deposito di materiale
d’arrampicata. Eravamo ancora 450 metri sotto il colle. Vista da questo punto
la rimanente scalata verso il colle sembrava divisa in due sezioni: 350 metri
di arrampicata appoggiata ed apparentemente facile portavano ad un traverso di un
centinaio di metri verso destra che poteva solo consistere in artificiale
difficile su roccia verticale e liscia. In effetti anche Maestri descrisse la
scalata in questo modo. Ciò che invece trovammo salendo fu alquanto differente.
La parte che sembrava più facile si rivelò molto impegnativa, mentre il
traverso era in realtà una scalata moderata su una cengia inclinata non
visibile da sotto. Questi fatti, combinati con la completa assenza di segni di
passaggio negli ultimi 450 metri del tratto che porta al Colle della Conquista,
mi indussero a concludere che il racconto di Maestri era inventato.
La forza di un buon team viene da una
esplicita fiducia nella volontà di successo dei compagni e nella loro capacità
di giudizio. Jay e John rispondevano a questi requisiti. Peraltro il fato non
volle più farci arrampicare insieme come una sola squadra. La successiva
stagione patagonica mi trovò a casa ad assistere alla nascita di mia figlia
Sage, mentre a John e Jay si unì Dave Carman nella prima salita in stile alpino
del Cerro Torre. Jay scomparve a Indian Creek, verso la metà degli anni ’80,
quando una sosta su singolo chiodo a pressione cedette. Mi è stato chiesto
spesso se la morte di amici in incidenti di scalata abbia mai messo in dubbio
la mia scelta di rischiare la pelle in attività alpinistiche. Di tutti gli
arrampicatori che ho conosciuto in queste quattro decadi, ne posso contare
almeno quaranta che non sono più con noi. Ho sentito la tristezza della loro
dipartita, in special modo per le loro famiglie, ma essi sono morti inseguendo
i loro sogni. Non ho mai avuto dubbi sulla mia scelta di vivere inseguendo i
miei.
Se la torre Egger fu la rivelazione
per me, il Latok I fu il mio calvario. Imparai che si può ritornare dalla
morte. Mi resi anche conto dell’importanza che riveste per me l’intero processo
della scalata. La soluzione dei problemi che via via si presentano e il
movimento atletico della salita, erano allora, e rimangono per me tutt’oggi, la
vera motivazione, piuttosto che il successo della conquista di una cima. Altri
scalatori che conosco, buoni scalatori che però preferivano aver fatto una
salita all’azione effettiva di farla, si sono rivolti verso altre sfide: lo
rimango, dopo 40 anni, completamente preso dalla ricerca maniacale della mia
passione.
“Le mie motivazioni
rimangono ancor oggi immutate: l’esplorazione di rocce mai scalate, la
sensazione fisica delle mie mani e piedi che lavorano per contrastare la
gravità, per risolvere le sfide che il mondo verticale mi pone davanti”.
Nessun commento:
Posta un commento