martedì 14 giugno 2016

JIM DONINI

Tratto da:
Vita da Climber – di Jim Donini
 
Autobiografia apparsa su Alpinist N° 2 – marzo 2003 
(traduzione di Mauro Penasa su Annuario CAAI, 2009)
Il primo tentativo di alpinismo estremo non fece che risvegliare il mio appetito per le surreali torri di granito della Patagonia. Nell’estate del 1973 trovai un redditizio impiego presso l’Exum Guide Service, nel Grand Teton National Park, Wyoming, dove ebbi occasione di subissare i miei compagni Steve Wunsch e John Bragg di storie esagerate sul mio tentativo abortito di raggiungere la Patagonia. Una notte, dopo un’eccessiva quantità di Jack Daniels, riuscii a convincere Steve e John che noi avevamo le capacità e la testa per affrontare quelle torri viste solo in fotografia. In autunno Steve decise che il denaro risparmiato sarebbe stato speso meglio in una chitarra nuova, ma John, meno incline alla musica, si unì al mio volo verso sud, determinato almeno a vedere quelle torri mitiche. La mia prima visione del massiccio Fitz Roy-Torre resterà per sempre impressa nella mia mente. Rilucenti guglie di monolitico granito coronate di ghiaccio sorgevano come miraggi dalle ondulate steppe patagoniche. Sebbene sia non credente, sentii che qualche energia suprema doveva aver messo mano alla creazione di questa unica contrapposizione di ghiaccio e roccia, foresta e deserto. Seppi in quel momento che sarei tornato spesso in questa aspra terra battuta dal vento. Nel ‘73 il massiccio era ancora un posto davvero selvaggio. Il villaggio di El Chalten non esisteva, e le corriere giornaliere da Rio Gallegos erano lontane anni nel futuro. L’accesso era difficile e ogni rifornimento inaffidabile.
(…) Nebbie agitate oscuravano i picchi leggendari che eravamo venuti a scalare. Per tre settimane esplorammo la ricca vita animale della foresta circostante con rare occasionali immagini delle torri. Rimasi incantato dal picchio di Magellano, dai condor che volteggiavano sopra di noi, dagli iceberg che si staccavano dal ghiacciaio patagonico nel lago Viedma. Durante una puntata verso il Torre, notai una volpe sul ghiacciaio che mi incuriosì per il suo concentrato affaccendarsi su un terreno di solito poco remunerativo. Da più vicino la ragione divenne chiara, in forma di tibia umana, ormai spolpata ma ancora infilata saldamente nello scarpone. Sparsi intorno si trovavano altri oggetti: il manico rotto di una piccozza e alcuni brandelli di corda testimoniavano della provenienza del reperto.
In 16 anni il solo scalatore scomparso in questa remota regione era il temerario austriaco Toni Egger, travolto da una valanga di ghiaccio mentre tentava la prima salita del Cerro Torre con Cesare Maestri. John ed io decidemmo di seppellire i resti nel ghiacciaio del Torre, sentendo che l’eterno riposo di uno scalatore dovesse proprio trovarsi in un posto così. La stampa austriaca ci criticò nettamente: la loro sensibilità cattolica avrebbe preferito il recupero e la tumulazione in un mausoleo dopo le cerimonie del caso.
 (…) (DOPO IL TENTATIVO ALLA TORRE STANDHARDT) Benvenuti in Patagonia! Argomenti trattati? Primo: fortuna – senza dubbio, se il fornello non si fosse rotto, ci saremmo ritrovati sulla cima di una torre fino ad allora vergine, in una meravigliosa e tiepida giornata di sole. Secondo: dolore – inizia quando finisce la fortuna e arriva il vento, conosciuto qui come la “Escoba de Dios”, a dar del suo meglio per scaraventarvi in un universo parallelo. Terzo: talento – la più importante scoperta fu di possedere il dono indispensabile a ogni vero alpinista: grazie a dio ho una memoria davvero corta. Tornai in Patagonia l’anno successivo.
Nel dicembre 1975, Jay Wilson si unì a me e a John. Un neofita del grande alpinismo, Jay non aveva la nostra esperienza ma possedeva una capacità atletica superiore ed un carattere socievole e instancabile che ne faceva un partner insostituibile. Eravamo di ritorno, alla ricerca di un boccone più grosso. Il macabro ritrovamento delle spoglie di Egger l’anno precedente aveva spostato la nostra attenzione verso la torre inviolata e imponente a lui dedicata. Ora, con Jay, il nostro piano era seguire la via Egger-Maestri per 750 metri fino al colle che separa il Cerro Torre dalla Torre Egger e di proseguire fino alla cima lungo i successivi 400 metri di liscio granito incrostato di ghiaccio. La nostra linea di salita era costellata da una minacciosa serie di pericoli oggettivi. Passammo intere ore fatalmente inermi sotto gli enormi funghi di ghiaccio che rivestivano le cime del Torre e della Egger, mentre fissavamo le corde verso il Colle della Conquista, così battezzato da Maestri. Il tiro in artificiale subito sopra il colle, strapiombante e marcio, sorpassò tutto ciò che avessi mai incontrato in Yosemite, con la differenza che le conseguenze di una caduta sarebbero state terribilmente più serie. Come da copione la tempesta soffiava sempre più intensa mentre ci avvicinavamo alla cima, ma noi eravamo troppo impegnati per dare alla cosa tutta la considerazione che questa meritava, e poi avevamo una missione da compiere. Dopo tre mesi di faticosa preparazione, rischiosa arrampicata, estenuante attesa nelle settimane di tempesta, la nostra tanto castigata squadra si fece finalmente strada attraverso il fungo di ghiaccio della cima, per raggiungere uno dei luoghi più inaccessibili del mondo.
La prima ascesa della Torre Egger fu per me una vera rivelazione ma significò anche disillusione. Scopersi l’importanza che riveste una squadra forte e determinata. Mi resi però anche conto che l’ambizione sfrenata poteva arrivare a modificare la verità. Le immagini del Cerro Torre, probabilmente la cima più impressionante della terra, e il racconto della sua prima ascensione mi avevano chiamato in Patagonia. Nel ‘72, un articolo apparso sulla rivista Mountain screditò il racconto della scalata di Maestri. Ken Wilson, l’autore dell’articolo, sosteneva che Maestri ed Egger non potevano avere avuto successo, per numerose ragioni. Il livello dell’arrampicata nel 1959 non era sufficiente per quelle difficoltà, inoltre le avverse condizioni atmosferiche e il tempo speso sulla via potevano solo aver causato il fallimento dell’impresa. Ero dell’idea che bisognasse credere alle parole di uno scalatore, specialmente se aveva la formidabile reputazione di uno come Maestri. Ma dopo aver salito la loro linea al Colle della Conquista, fui costretto a formarmi un’opinione differente. I segni del loro passaggio punteggiavano i primi 300 metri della via. Chiodi, tratti di corda marcia e qualche occasionale chiodo a pressione testimoniavano il loro passaggio. Tutto ciò terminava d’improvviso su una piccola cengia ghiacciata, dove trovammo un deposito di materiale d’arrampicata. Eravamo ancora 450 metri sotto il colle. Vista da questo punto la rimanente scalata verso il colle sembrava divisa in due sezioni: 350 metri di arrampicata appoggiata ed apparentemente facile portavano ad un traverso di un centinaio di metri verso destra che poteva solo consistere in artificiale difficile su roccia verticale e liscia. In effetti anche Maestri descrisse la scalata in questo modo. Ciò che invece trovammo salendo fu alquanto differente. La parte che sembrava più facile si rivelò molto impegnativa, mentre il traverso era in realtà una scalata moderata su una cengia inclinata non visibile da sotto. Questi fatti, combinati con la completa assenza di segni di passaggio negli ultimi 450 metri del tratto che porta al Colle della Conquista, mi indussero a concludere che il racconto di Maestri era inventato.
La forza di un buon team viene da una esplicita fiducia nella volontà di successo dei compagni e nella loro capacità di giudizio. Jay e John rispondevano a questi requisiti. Peraltro il fato non volle più farci arrampicare insieme come una sola squadra. La successiva stagione patagonica mi trovò a casa ad assistere alla nascita di mia figlia Sage, mentre a John e Jay si unì Dave Carman nella prima salita in stile alpino del Cerro Torre. Jay scomparve a Indian Creek, verso la metà degli anni ’80, quando una sosta su singolo chiodo a pressione cedette. Mi è stato chiesto spesso se la morte di amici in incidenti di scalata abbia mai messo in dubbio la mia scelta di rischiare la pelle in attività alpinistiche. Di tutti gli arrampicatori che ho conosciuto in queste quattro decadi, ne posso contare almeno quaranta che non sono più con noi. Ho sentito la tristezza della loro dipartita, in special modo per le loro famiglie, ma essi sono morti inseguendo i loro sogni. Non ho mai avuto dubbi sulla mia scelta di vivere inseguendo i miei.
Se la torre Egger fu la rivelazione per me, il Latok I fu il mio calvario. Imparai che si può ritornare dalla morte. Mi resi anche conto dell’importanza che riveste per me l’intero processo della scalata. La soluzione dei problemi che via via si presentano e il movimento atletico della salita, erano allora, e rimangono per me tutt’oggi, la vera motivazione, piuttosto che il successo della conquista di una cima. Altri scalatori che conosco, buoni scalatori che però preferivano aver fatto una salita all’azione effettiva di farla, si sono rivolti verso altre sfide: lo rimango, dopo 40 anni, completamente preso dalla ricerca maniacale della mia passione.
 “Le mie motivazioni rimangono ancor oggi immutate: l’esplorazione di rocce mai scalate, la sensazione fisica delle mie mani e piedi che lavorano per contrastare la gravità, per risolvere le sfide che il mondo verticale mi pone davanti”.
Jim, Jay e John al campo base

Primo tiro sulla sud della Torre Egger

Jim fa un pisolino al rio Fitz Roy




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