venerdì 31 marzo 2017

EFFETTO CERRO TORRE

Non è un effetto creato col computer. Semplicemente un sasso gettato in acqua nella Laguna Torre

GITA ALLA SALAGADA

mercoledì 15 marzo 2017

CIAO ROYAL

Royal Robbins durante l'apertura della Salathé Wall, El Capitan, salita nel 1961 insieme a Tom Frost e Chuck Pratt. All'epoca fu considerata la big wall più difficile al mondo.
Fotografia di Royal Robbins collection
Royal Robbins durante la prima salita di Nutcracker sulla Ranger Rock in Yosemite. Questa via - la prima ad essere con nuts - ha segnato l'inizio della rivoluzione del clean climbing
Fotografia di Royal Robbins collection
Royal Robbins, Tom Frost e Chuck Pratt dopo la prima salita della Salathé Wall, El Capitan
Fotografia di Royal Robbins collection
Liz Robbins e Royal Robbins in cima a Half Dome, Yosemite
Fotografia di Royal Robbins collection

Addio a Royal Robbins, una leggenda dell'arrampicata

di

Il 14 marzo all’età di 82 anni è scomparso Royal Robbins, uno dei più forti arrampicatori statunitensi degli anni ’60 e ’70 ovvero del periodo che è conosciuto come la "Golden Age" dell’arrampicata nella Yosemite Valley. Robbins è stato uno dei pionieri dell’arrampicata clean, cioè senza chiodi a pressione e chiodi, ed è stato uno dei sostenitori più importanti dell’arrampicata trad e della necessità di preservare la roccia.


Nato il 3 febbraio del 1935 a Point Pleasant in West Virginia ma poi cresciuto a Los Angeles, all’età di 14 anni Royal Robbins, da boy scout, ha avuto il primo contatto con la natura e le selvagge montagne della High Sierra. Questa esperienza è stata fondamentale e ha segnato l’inizio del suo amore - che poi è durato tutta la vita - per la natura e l’outdoor. Durante questo viaggio ha iniziato anche ad arrampicare ed in seguito ad una caduta si è iscritto al Sierra Club, il famoso club dell’arrampicata di Los Angeles dove ha incontrato altri giovani arrampicatori come Yvon Chouinard, TM Herbert e Tom Frost che negli anni a venire avrebbero scritto pagine importanti dell’arrampicata statunitense.
Dopo un apprendistato passato a ripetere svariate vie esistenti, tra le quali nel 1952 spicca la seconda salita della parete nord della Sentinel Rock a Yosemite considerata una della più difficile vie degli USA all’epoca, Robbins ha messo a segno il suo primo grande colpo nel 1957 con l’apertura della Regular Northwest Face sull’ Half Dome. Questa salita, effettuata in cinque faticosi giorni nel giugno del 1957 insieme a Jerry Gallwas e Mike Sherrick, all’epoca è stata considerata la più difficile big wall del Nord America, tanto che fu la prima via ad essere gradata VI.
Nel 1960 insieme a Joe Fitschen, Chuck Pratt e Tom Frost ha effettuato la seconda salita di The Nose su El Capitan in soltanto sette giorni (Warren Harding aveva impiegato 45 giorni sparsi su 18 mesi), mentre è nel 1961 che è arrivato forse il suo capolavoro assoluto: la prima salita della mitica Salathé Wall su El Capitan. Aperto in 9 giorni e mezzo, insieme a Chris Pratt e Tom Frost, questo autentico monumento dell’arrampicata è forse la big wall più logica della parete. Ma è soprattutto lo stile dell’apertura che aveva letteralmente lasciato tutti a bocca aperta: corde fisse soltanto nel primo terzo della via, seguite poi da un’unica spinta verso l’alto, immersi nella grande incognita di una parete tutta da scoprire, con soli 13 spit utilizzati invece dei 125 usati tre anni prima da Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore per aprire The Nose. Uno standard in termini di stile assolutamente altissimo lasciato in eredità per le future generazioni.
Negli anni a seguire per Royal Robbins sono arrivate numerose altre prime salite, tra cui citiamo la North Wall di Sentinel Rock nel 1962 e la Direct Northwest Face di Half Dome nel 1963, ma anche la famosa Diretta Americana aperta nel luglio del 1962 sulla parete Ovest del Dru nel massiccio del Monte Bianco insieme a Gary Hemming e che è stata descritta da Robbins come "la migliore via che abbia mai salito in ambiente alpino." Un’esperienza che poi l’ha fatto ritornare sulla stessa montagna nell’agosto del 1965 per aprire la Direttissima Americana insieme e John Harlin.
Tutte queste salite sono stati segnate da un uso estremamente limitato di chiodi e chiodi a pressione, il vero Leitmotif dell’arrampicata di Robbins. Tanto che nella primavera del 1967 insieme a sua moglie Liz Robbins è poi arrivato un altro momento fondamentale per l’evoluzione dell’arrampicata come la conosciamo oggi: l’apertura della via Nutcracker Suite sulla Ranger Rock. Oggi considerata una grande classica dello Yosemite, è stata la prima via della valle ad essere stata salita senza chiodi e chiodi a pressione, ma invece soltanto con l’uso dei nuts - all’epoca assolutamente una novità. Una salita che ha dato il via alla rivoluzione dell’clean climbing, l’arrampicata che conosciamo oggi come arrampicata trad.
Nella primavera del 1968 Robbins ha superato se stesso effettuando in dieci lunghi giorni la prima solitaria di El Capitan lungo la via Muir Wall. Questa salita, la prima solitaria di una via gradata VI, ha coronato dodici anni di attività nello Yosemite. Sempre nel 1968 insieme a sua moglie Liz - che per inciso ha effettuata la prima femminile dell’Half Dome nel 1967 - è stata creata l’azienda "Mountain Paraphernalia" che poi si sarebbe presto trasformato in "Royal Robbins", una delle aziende leader dell’abbigliamento outdoor.

Negli anni successivi Robbins ha praticato con grande passione e talento il kayak. A chi gli domandava se queste discese ed avventure in kayak potessero essere paragonate alla sua esperienza con l’arrampicata, Robbins aveva risposto "No. Le amo moltissimo, e mi danno molte soddisfazione, ma sono in primis, e fino alla fine, un arrampicatore. Arrampicherò finché muoio, sarà l’ultima cosa che smetterò di fare."



martedì 7 marzo 2017

L'ELICOTTERO CADUTO A CAMPIGLIO



Il sopravvissuto: «Non si vedeva più niente, abbiamo battuto sulla roccia»

Il copilota Fulgido Ferrari ha estratto gli altri membri dell’equipaggio: il tecnico era finito con la faccia nella neve



TRENTO. «Proprio mentre stavamo verricellando c’è stato l’effetto whiteout. Era tutto bianco e non si vedeva niente. Siamo andati a sbattere con il muso contro uno spuntone di roccia e siamo precipitati sul fianco destro. Saremo stati a 15, 20 metri di altezza». Fulgido Ferrari era il copilota dell’Agusta, l'elicottero di Trentino Emergenza precipitato domenica sotto cima Nambino, a quota 2.500 metri, mentre soccorreva una coppia di scialpinisti. Ferrari sedeva accanto al pilota Andrea Giacomoni. In condizioni di visibilità non ottimale sugli elicotteri del 118 sale anche un copilota che aiuta il pilota ad orientarsi, come spiega il comandante del corpo permanente dei vigili del fuoco Ivo Erler. Ferrari, la pelle cotta dal sole di chi è sempre in montagna e una fasciatura al dito a testimonianza del fatto che ha dovuto rompere un finestrino per estrarre il medico di bordo Matteo Zucco, è sempre rimasto saldo e ha contribuito a salvare il resto dell’equipaggio. Tutti, al nucleo elicotteri, gli fanno i complimenti e gli danno delle gran manate sulle spalle. Il comandante del nucleo Elicotteri, Bruno Avi, ha lo sguardo tra il commosso e il sollevato. I piloti sono tutti accorsi, anche quelli non in servizio. C’erano anche l’ex responsabile Claudio Bortolotti, Luisa Zappini e tanti altri. Tutti gli fanno i complimenti, ma con la schiettezza della gente di montagna avverte bonoriamente: «Oh, non chiamatemi eroe, che non è vero. Sono stato solo fortunato».
Il suo è un racconto tutto d’un fiato: «Siamo stati chiamati per un soccorso valanghe. Sapevamo che non c’era una bellissima visibilità e per questo siamo saliti dalla val Rendena, invece normalmente si attraversa il Brenta. Siamo arrivati a Campo Carlomagno, siamo andati sul posto dalla zona Pradalago e siamo saliti. E lì il cielo era aperto. Sopra era sereno. Abbiamo individuato subito i due scialpinisti. Prima abbiamo provato a fare un overing, ci siamo avvicinati al terreno per scaricare il personale. Ma non è stato possibile farlo perché con le pale si sollevava troppa neve e non si vedeva niente. Per questo ci siamo alzati e abbiamo fatto un altro giro sopra e abbiamo deciso di usare il verricello. Sono scesi insieme il tecnico dell’elisoccorso Matteo Marsilletti con il tecnico cinofilo Roberto Barbolini con il cane».
Niente poteva far pensare a quello che stava per accadere: «A questo punto c’è stato il whiteout totale. Non abbiamo più avuto punti di riferimento, ci siamo spostati senza accorgercene e siamo andati a picchiare con il muso su una sporgenza rocciosa che non si vedeva. I due scesi con il verricello erano già a terra e noi spostandoci ce li siamo trascinati dietro per 20 o 30 metri. Abbiamo battuto. L’elicottero si è ribaltato sul fianco destro ed è caduto. Quando siamo precipitati, mi sono guardato in giro e ho visto subito il pilota che era giù in mezzo alla neve, un po’ stordito, mentre io ero su in alto. Ho spento i motori, ho spento il carburante perché il pilota non ci arrivava proprio. Mi sono sganciato, ho aiutato il pilota a rialzarsi, a farlo reagire perché dovevamo essere in due ad aiutare gli altri. Poi, sono saltato dietro. Il medico l’ho visto subito legato con entrambe la braccia fratturate. Ho spaccato il finestrino e l’ho tirato su e l’ho portato all’esterno. Poi sono saltato dentro e ho cercato il tecnico Andrea Gueresi che non si vedeva più. Anche l’infermiera, Cristina Facinelli, lo chiamava ad alta voce e lui non si vedeva. Alla fine ho scavato tra i vetri rotti e ho trovato il sedere di Andrea. Con le mani sono risalito per tutto il corpo per andare fino alla testa e liberarla. Aveva la faccia nella neve, il casco incastrato e l’elicottero sulla schiena. Io Cristina abbiamo liberato la testa di Andrea che era incastrata nel casco che era schiacciato. Abbiamo provato a vedere se aveva traumi, ma bisognava tirarlo fuori perché si vedeva fumo venir fuori dal motore. Perciò bisognava liberarlo immediatamente. Ho fatto un buco sotto l’elicottero, a valle e l’ho tirato fuori da lì. L’ho portato all’esterno. Poi ho preso il medico e l’ho tirato lontano dal motore. Nessuno è stato sbalzato fuori. Solo il tecnico, che era sul portellone per verricellare, è stato buttato all’esterno dell’elicottero e si è ritrovato sotto, con la faccia a terra e l’elicottero sulla schiena. I due che erano scesi con il verricello si erano fermati sulla neve senza problemi e sono venuti ad aiutarci a mettere il medico e Andrea nella posizione giusta. Loro due erano quelli ad avere i problemi maggiori. Poi, il mio compito è stato quello di calmare un po’ tutti, forse perché riesco a tenere il sangue freddo. A colpi prendevo a sberle uno, a colpi un altro e li ho calmati».
Il comandante Erler lo ha ascolta sospeso tra il sollievo e la stanchezza. Sente che è stato un miracolo: «Siamo stati molto fortunati a riportare tutti a casa. In questa situazione avrebbe potuto accadere di tutto». In serata al Nucleo è arrivato anche il pilota Andrea Giacomoni che spende solo poche parole. La sua voce tradisce un grande sollievo: «Sono stato all’ospedale, ma
per fortuna sto bene. Non ho niente. Non sapete proprio quanto sono contento che sia andata così». L’infermiera Cristina Facinelli ha affidato la sua gioia per lo scampato pericolo a Facebook: «Grazie a tutti sto bene davvero giuro!!! Non riesco a rispondere a tutti grazie di cuore».

lunedì 6 marzo 2017

domenica 5 marzo 2017

IL GRANDE JEFF

Jeff Lowe, premio alla carriera Piolet d'Or 2017

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All’alpinista statunitense Jeff Lowe va il Piolets d'Or Carrière 2017. Il premio sarà assegnato durante la 25esima edizione del premio per l’alpinismo che si terrà dal 12 al 15 aprile 2016 a Grenoble in Francia. In passato il premio è stato assegnato a Walter Bonatti, Reinhold Messner, Doug Scott, Robert Paragot, Kurt Diemberger, John Roskelley, Chris Bonington e Wojciech Kurtyka. La presentazione di Claude Gardien, storico caporedattore della rivista francese Vertical.

Una delle salite più grandi di Jeff Lowe è stato un fallimento. Nel 1978, Jeff, il suo cugino George Lowe, Jim Donini e Michael Kennedy sono stati costretti a tornare indietro a soli 150 metri dalla cima del Latok 1, una magnifica montagna che si eleva sopra il ghiacciaio Biafo in Pakistan. In quel momento, nessuna spedizione aveva mai raggiunto la vetta del Latok 1 (anche se sarebbe stata salita l'anno successivo da un team giapponese), e i quattro statunitensi avevano scelto si salire la cresta nord in stile alpino; una linea pulita, evidente ed estremamente difficile. Questo è successo quasi 40 anni fa. Da allora, molte altre spedizioni hanno effettuato dei tentativi, ma la cresta nord del Latok 1 rimane uno degli obiettivi più ambiti e sfuggente del mondo. Nessun altra spedizione si è avvicinata al punto più alto raggiunto da Jeff ed i suoi amici.
Quando invece si tratta di successi, la lista è lunga, così ne ho scelti solo alcuni. La via d’arrampicata a Zion National Park, Moonlight Buttress, è considerata una classica mondiale ed è stata aperta da Jeff Lowe insieme a Mike Weis nel 1971. Jeff aveva soli 21 anni. Tre anni più tardi, quando lui e Mike hanno effettuato la prima salita di Bridal Veil, Jeff è diventato uno dei pionieri dell’arrampicata su ghiaccio, un'attività in cui avrebbe veramente brillato. Nel 1979, ha partecipato ad una spedizione sull' Ama Dablan, e ha salito in solitaria una nuova via sulla parete sud. Nel 1982 con una nuova via sulla Kwangde Ri, sullo Kangtega nel 1986 e, ancora, con un’altra nuova via sullo Taweche nell’inverno del 1989, Jeff ha confermato la sua posizione dominante e la sua abilità su ghiaccio. Queste salite sono state una prima indicazione della tendenza attuale nell’alpinismo, che vede vie tecniche ed estetiche predilette a scapito del perseguire a tutti costi il raggiungimento delle quote più alte.
Nel 1991, Jeff Lowe ha intrapreso la sua più grande avventura alpinistica. Con l'obiettivo di aprire in solitaria una linea diretta, si è gettato nell’austero universo invernale della parete nord dell'Eiger. Raggiungere la cima lungo la sua Metanoia gli ha richiesto tutto quello che aveva e l’ha costretto a scavare molto più in profondità rispetto a tutte le sue salite del passato. Questo incontro con il destino ha ispirato una profonda introspezione ed una radicale evoluzione nella sua mentalità - da qui il nome della via. Tre anni più tardi, Jeff ha applicato questa stessa metanoia ad una disciplina che amava: l’ice climbing, ovvero l’arrampicata su ghiaccio. La foto di un ragazzo appeso alle sue piccozze sotto un tetto di roccia prima di attaccare una candela di ghiaccio è stata vista in tutto il mondo. Questa via, Octopussy a Vail in Colorado, è stato un colpo di genio - è stato l'origine di un nuovo sport (il dry tooling) e avrebbe cambiato per sempre le pratiche di arrampicata su ghiaccio, l’alpinismo e l’arrampicata in Himalaya.
I contributi di Jeff Lowe all'alpinismo non si limitano alle sue salite. Nella fase iniziale, si è interessato a sviluppare il materiale d’arrampicata con i marchi Lowe e Latok. Grazie a Jeff, tutti noi abbiamo sostituito il nostro discensore ad otto con i leggeri e compatti assicuratori tubolari. I Footfangs erano tra i più ricercati primi ramponi rigidi. E le sue viti da ghiaccio R.A.T.S (che potevano essere utilizzate su ghiaccio di scarsa qualità) e lo Snarg (una vite da ghiaccio a compressione) sono diventati molto popolari per un'intera generazione di cascatisti. Inoltre è stato un organizzatore di eventi ed autore di libri tecnici dedicati all’arrampicata, Jeff Lowe ha avuto un ruolo in ogni aspetto di questo sport. È una delle figure più importanti nel mondo dell'alpinismo e gli alpinisti di tutto il mondo sono rimasti colpiti quando hanno appreso, qualche anno fa, che gli era stata diagnosticata una malattia degenerativa.
Lowe, che da giovane aveva collezionato una lista incredibile di prodezze con facilità notevole ora, da uomo adulto, avrebbe dovuto affrontare una salita ancora più impegnativa rispetto all’ Eiger. Avrebbe dovuto vivere una seconda metanoia. È con sorprendente coraggio e umorismo che Jeff si trova ad affrontare la sua malattia, una prodezza che dà un nuovo significato alle parole di un altro vincitore del Piolet d'Or alla Carriera, Rober Paragot: "In un primo momento ho pensato che essere un alpinista significasse avere successo sulle vie più difficili. Più tardi ho imparato che è molto più di questo.”