domenica 8 ottobre 2017

CIAO Franček


Il mio caro amico e coetaneo Franček Knez se n’è andato l’altro ieri. Lo avevo già saputo ieri ma non ci credevo. Poi ho letto sulla pagina del suo Grande amico Silvo Karo che ha scritto: “It was only one, the LEGEND! R. I. P. Franček”.
Ci eravamo conosciuti in Yosemite nel 1981 e poi rivisti altre volte in Patagonia. Una persona Unica. 
Ciao Grande Bimbo, ciao Franček
La vita di Franček Knez
di Bernadette McDonald
Traduzione © Luca Calvi
Ero nella foresta, col fiatone, a correre mentre cercavo di star dietro all’alpinista sloveno Franček Knez, finché questi scomparve dietro ad un risalto roccioso. Il terreno era di quelli insidiosi, coperto di foglie scivolose e disseminato di pietre arrotondate. Ciò nonostante il cinquantanovenne Franček Knez continuava a muoversi con una sicurezza di passo quasi soprannaturale mentre io riuscivo a muovermi quasi inciampando ad ogni passo. Stavo manifestando la carenza di uno di quelli che lui ritiene essere i requisiti fondamentali per ogni alpinista: la capacità di muoversi velocemente nei boschi. Era cresciuto giocando nei boschi dietro la casa dei suoi genitori a Rimske Toplice, cittadina della Slovenia orientale, vicino alla sua residenza attuale, a Lasko. “Se sai come muoverti nei boschi ripidi in mezzo a foglie marcescenti e scivolose allora sarai in grado di camminare ovunque” – mi disse Franček quando finalmente lo raggiunsi.
Ero appena arrivata dal Canada ed avevo passato la mattinata a casa di Franček con mio marito Alan ed un altro amico sloveno, Silvo Karo, sperando di poter conoscere qualcosa di più di questa icona underground. Silvo lo chiamava “Il guru dell’alpinismo sloveno”, un visionario il cui stile era rafforzato dall’intransigenza dei valori.
Franček è autore di più di 5000 scalate, tra le quali la prima della parete Sud del Lhotse verso la cresta sud-ovest nel 1981, la Direttissima dell’Inferno alla parete est del Cerro Torre nel 1986 e la via slovena alla Torre di Trango nel 1987. Eppure, a causa della sua reticenza, sono poche le persone al di fuori della Slovenia che sappiano chi sia quest’uomo dalle tante sfaccettature (è anche scultore e scrittore).
Nonostante abbia girato il mondo Franček non ha mai posseduto un’automobile o preso la patente di guida. Non possiede computer o telefoni, è una persona fieramente orgogliosa della propria privacy. Uno di quelli che probabilmente non sopravvivrebbe nel mondo moderno degli “scalatori professionisti”, con i feed in tempo reale, autopromozioni implacabili e copertura mediatica per ogni singola lunghezza di corda.
Vive con la moglie Andreja in una abitazione modesta, impeccabile per pulizia (la loro figlia ventenne, Anja, è fuori casa per studio). Ci togliamo le scarpe alla porta, mettendole vicine all’ordinata fila di scarpe vicino all’ingresso. La loro casetta di periferia si trova ad una distanza facilmente percorribile in bicicletta dal birrificio Lasko dove Franček lavora come addetto alla sicurezza. Dalla finestra della cucina vediamo pascoli verdeggianti che si innalzano lungo pendii ripidi ornati da boschi. Un panorama movimentato, scolpito dal fiume Savinja, che scorre nel fondovalle e va a portare alla birra Laško quel suo sapore fresco.
Quel mattino Franček sedeva a capotavola del tavolo di legno della sua cucina, un uomo snello, piuttosto delicato, che indossava una giacca di pile di colore blu marino chiaramente molto usata e pantaloni neri da corsa. Aveva mani ruvide e callose, con parecchie unghie spaccate. Mentre parlavamo il suo volto, segnato da anni di sole, vento, ghiaccio e neve, si lasciò andare senza fatica ad ampi sorrisi. I suoi occhi blu brillavano di intelligenza ed il berrettino da baseball sembrava essere incollato alla testa.
Mentre stavamo passando radenti al bordo superiore della paretina, Franček scomparve dalla vista. La sua testa fece poi capolino dal sopra il bordo. “Vieni qui. Qui, appena sotto. Fai attenzione,” – disse. Attaccandomi a piccoli rametti, scesi lungo un paio di gradini di roccia per poi finire dentro una caverna. Al suo interno c’erano una sedia di legno ed una scatola con carta e matite. Ad Est, un’apertura naturale dava su una faggeta, la cui chioma era di un delicato verde primaverile. Subito sotto, una parete alta una ventina di metri si estendeva in tutte le direzioni. “E questo cos’è?” – gli chiesi.
“E’ il mio antro. Un luogo per la meditazione. Per pensare. Per scrivere,” – fu la sua risposta. Mi disse che l’aveva scavata nel giro di alcuni mesi, usando una specie di piede di porco per allentare le rocce e l’argilla indurita.
Divenne poi quieto e silenzioso, crogiolandosi al sole che filtrava attraverso una miriade di foglie tremule. Sembrava che traesse energia dallo scenario della natura, tendendo l’anima a trarre alimentazione per la sua immaginazione. Forse, stava traendo forza non dal paesaggio, ma da dentro di sé. Dalla solitudine. Mi chiedevo se quella fosse la stessa connessione che Franček aveva sentito per altri luoghi di montagna, più alti, più freddi e più selvaggi, dove aveva passato così tanta parte della sua vita. Cercavo di immaginarmi Franček alto sulla parete Sud del Lhotse nel 1981, a lottare contro le valanghe, la gravità e la carenza di ossigeno, forte di quella sfuggente, inspiegabile pacatezza che solo lui sembra davvero possedere.
Franček è nato nel 1955 nella Stiria slovena, un’area che ha dovuto patire l’occupazione nazista e poi i bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Si stava ancora riprendendo dalle purghe degli anni del Dopoguerra quando il nuovo regime comunista prese saldamente in mano le redini del potere e a poca distanza da lì le fosse comuni furono riempite di corpi di cittadini sospettati di collaborazionismo con i tedeschi oppure semplicemente di attività anticomuniste.
Sua madre andava a far pulizie negli edifici di una fabbrica nelle vicinanze e suo padre era un tuttofare che faceva vari tipi di lavoretti. “Non c’era un qualsiasi tipo di lavoro che mio padre non fosse in grado di affrontare” – mi disse Franček. “Tutto veniva fatto a mano. La nostra vita si basava sul lavoro duro: tagliar legno, mescolar calcestruzzo, scavare nei campi.” All’età di dodici anni Franček era già a salire su impalcature instabili con suo padre, per aiutarlo a riparare i campanili delle chiese.
Franček iniziò a fare i primi passi di arrampicata sulle piccole paretine presenti nelle colline vicino a casa, dove imparò rapidamente ad usare anche la più piccola delle protuberanze per mani e piedi in quell’eccitante nuovo regno. Dopo essere entrato a far parte del Club Alpino locale, fu uno dei primi sloveni ad allenarsi in modo specifico per le scalate. La vera motivazione originale era la paura: le vie alpine in Slovenia sono notoriamente lunghe, ripide e serpeggianti, roccia friabile e ed esposizione da capogiro. Per prepararsi era solito salire e arrampicarsi su recinzioni e mura di pietra. Sollevava pesi e andava a correre. Mentre attendeva l’autobus, poi, era solito fare esercizi per cosce e polpacci fin quando non ce la faceva più per il dolore.
Il suo allenamento preferito, però, rimaneva andare a far passi di arrampicata su un muro di mattoni appena fuori le terme. Un giorno, mentre Franček era e metà altezza, un soldato alto, dalla pelle chiara, lo apostrofò, parlando in serbocroato. “Cosa stai facendo?” – gli chiese.
“Vedi bene cosa stia facendo,” – gli rispose Franček. Sebbene ambedue fossero jugoslavi, il soldato proveniva chiaramente da una delle repubbliche del Sud e non c’era un gran feeling tra le varie regioni vicine.
Il soldato corrugò la fronte. “Scendi subito da quel muro!”. Franček arrivò ad afferrare una buona presa.
“Ti ho detto di venire giù!” – urlò il soldato mentre Franček rimaneva immobile.
Il soldato aprì la fondina, armeggiò un po’ con l’arma pesante in dotazione e poi la puntò contro quello scalatore disobbediente.
Franček guardò verso il basso. Davvero quel tizio gli avrebbe sparato? “La mia rabbia mi aveva portato dentro a quel gioco pericoloso ma in ogni partita c’è una gara di forza. Uno dei concorrenti perde sempre la partita,” scrisse poi nel suo libro di memorie, Ožarjeni Kamen. Franček si alzò di qualche centimetro. Quando guardò sotto di sé vide che il soldato si era ritirato di qualche passo. Franček aveva vinto.
Franček aveva scelto di ignorare l’oppressione politica che esisteva al tempo dei suoi anni giovanili, preferendo invece concentrarsi sulle scalate, arrampicando quanto più spesso possibile sulle falesie locali e sulle Alpi Giulie e di Kamnik. Durante gli anni del Dopoguerra, gli scalatori del blocco dell’Est che volevano viaggiare al di fuori dei propri Paesi dovevano lottare per riuscire a trovare i mezzi finanziari ed i permessi necessari per l’espatrio. Ciò nonostante, nel 1977, Franček organizzò un viaggio nelle Alpi Occidentali. Come la maggior parte degli scalatori stranieri, Franček andò a piazzare la tenda dietro al cimitero di Chamonix, dove non si pagava. Dato che non c’erano negozi per l’arrampicata in Jugoslavia, Franček e soci si fecero prestare l’equipaggiamento base dal Club Alpino per poi andare a far spese nella cittadina, non senza qualche piccola malefatta occasionale. “E’ successo che qualcuno sia andato ad acquistare uno zaino, per poi farci scivolare dentro inavvertitamente qualcosina” – disse Franček – “Passando davanti alla cassa, ciò che videro fu solo lo zaino” – aggiunse, in una sorta di timida giustificazione: “Vivevamo praticamente in povertà…”.
Un giorno, poi, lui ed il suo compagno Joze Zupan erano andati a scalare appena fuori Chamonix. Su una delle lunghezze finali della loro via scovarono una gran quantità di materiale, cordini, chiodi, bond, tutta roba che era stata abbandonata. I giovani sloveni avevano aumentato sensibilmente il proprio materiale. Sulla vetta, però, furono sorpresi da una bufera di neve e, non riuscendo a trovare gli ancoraggi per le doppie, dovettero lasciarsi indietro tutto quel bel materiale nuovo per attrezzarsi le doppie. Alla fine della scalata si trovarono con lo stesso materiale con cui l’avevano cominciata e la conclusione di Franček fu: “E’ così che vanno le cose.” Fu allora che comprese che nella vita nulla arrivava per nulla.
Dopo una stagione spettacolare nelle Alpi, compresa una prima ascensione sulla ghiacciata Parete Nord delle Grandes Jorasses, Franček si garantì un posto nella spedizione jugoslava del 1979 per la Diretta alla Cresta Ovest dell’Everest. Quella scalata fu in realtà un assedio di massa, con diciannove Sherpa come membri dello staff, tre cuochi, tre aiuto-cuochi, due portalettere, parecchie centinaia di portatori, diciotto tonnellate di materiale e venticinque tra i migliori alpinisti jugoslavi, per la maggior parte provenienti dalla Slovenia, la più settentrionale delle Repubbliche. Obiettivo della spedizione era la diretta alla cresta Ovest, ancora inviolata, la via che gli americani Tom Hornbein e Willi Unsoeld avevano preso in considerazione nel 1963 prima di virare a sinistra nel colatoio che in seguito prese il nome di Hornbein. Al di sopra degli 8200 metri gli scalatori del 1979 si trovarono ad affrontare un camino verticale, con pareti lisce, leggermente strapiombanti e piccole cenge friabili. Parte di quella sezione fu scalata senza i guanti e con parecchie orribili cadute in punti espostissimi da parte dei primi di cordata. A tutt’oggi quella via è stata ripetuta una volta sola, da parte di una cordata bulgara.
La vetta fu raggiunta da cinque degli scalatori, ma quando poi Ang Phu Sherpa morì durante la discesa la spedizione venne fermata. Franček, che era uno dei membri in predicato per un altro tentativo alla vetta, chiese al capo-spedizione Tone Škarja il permesso di salire da solo il vicino Khumbutse, alto 6639 metri, e questo nonostante fossero privi del permesso di salita per quella vetta mai scalata. “Škarja mi disse di farlo senza che nessuno mi vedesse” – racconta Franček. “Fu, in un certo senso, una sorta di tacito accordo tra noi due.” Franček lasciò il campo nel freddo silenzio della notte, mentre tutti stavano dormendo. Solo e senza vincoli risolse la scalata rapidamente, nel giro di poche ore, fermandosi solo per ammirare le ambigue forme dei funghi nevosi vicino alla vetta. Quando il vento, pungente, andava a frustargli il volto, il cuore si metteva a pompare con costanza per riscaldare le estremità, lasciandogli l’immaginazione libera di vagare nel mezzo della solitudine notturna.
Franček passò la maggior parte dell’anno seguente da solo sulle cupe pareti Nord delle Alpi Giulie. Era arrivato ad avere una tale velocità di movimento su ghiaccio che il suo limitatissimo tempo poteva essere speso in modo più efficace se saliva in solitaria. Si sentiva a proprio agio in compagnia di sé stesso, lanciandosi su per colatoi ghiacciati e roccia friabile.
Franček aveva solo ventisei anni quando Aleš Kunaver lo invitò ad unirsi al gruppo che nel 1981 doveva andare a tentare la Parete Sud del Lhotse. Aleš era un capo-spedizione molto rispettato nel Club Alpino Sloveno, sostenuto dallo Stato, per il quale aveva guidato le vittoriose spedizioni all’Annapurna II ed alla parete Sud del Makalu.
Kunaver era sistematico nello scegliere gli scalatori per i grandi obiettivi himalayani. Per la parete Sud del Lhotse aveva bisogno di tipi come Franček, gente con esperienza ad alta quota e con capacità tecniche su terreni ripidi.
Franček andò ad unirsi ad una formazione di superstar jugoslave, ognuno con un alto livello di abilità fisica, di concentrazione psicologica e di motivazione. Adusi alle battaglie ed alle difficoltà della quotidianità di un regime oppressivo, membri della spedizione quali Marjan Manfreda, Andrej Štremfelj, Stane Belak (Šrauf) e Nejc Zaplotnik produssero una serie di sbalorditive prime assolute di alta difficoltà ad alta quota dalla metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta. Ben presto nomi come Silvo Karo, Janez Jeglič, Pavle Kozjek, Tomo Česen e Slavko Svetičič iniziarono a riecheggiare nel mondo dell’alpinismo d’élite. Alla fine degli anni ’80 assursero, come razzi liberati nel cielo, ad una forma più pura e più rischiosa di alpinismo, scrollandosi di dosso la sicurezza delle corde fisse, squadra di supporto ad alta quota, ossigeno supplementare e campi predisposti.
Con i suoi 8516 metri il Lhotse è la quarta montagna più alta della terra, collegata all’Everest dal Colle Sud. Fu salita per la prima volta dagli svizzeri nel 1956 lungo il suo versante occidentale, ricoperto di ghiaccio scintillante. Fecero seguito numerose ascensioni, tra le quali anche la prima salita invernale del guerriero dei ghiacci polacco Krzysztof Wielicki l’ultimo giorno di dicembre del 1988. La sua parete meridionale, però, è qualcosa di totalmente differente, una delle pareti di quelle dimensioni più verticali al mondo, che si alza per 3.2 chilometri in orizzontale in soli 2.25 chilometri in orizzontale, completa di minacciosi torrioni di ghiaccio, di pilastri rocciosi per nulla solidi, di pendii nevosi scanalati e di una parete finale di roccia. Nel 1981, nonostante i parecchi tentativi fatti da cordate italiane e giapponesi, la parete Sud era ancora inviolata.
La spedizione del 1981 fu un altro assedio. Fin dall’inizio i membri si trovarono ad affrontare ogni giorno tempeste di neve e cadute continue di sassi. Le slavine spazzavano la parete ogni pomeriggio. Ad un certo punto Franček stava scalando assieme al veterano dell’Himalaya Vanja Matijevec su un ripido pendio nevoso sopra il Camp V. Come poi raccontato da Matijevec in Lhotse: Južna Stena (Lhotse: la Parete Sud, N.d.T.), ambedue erano assicurati alla corda fissa quando furono sorpresi da una valanga che “scese come un fiume lungo la parete ed andò avanti per più di quindici minuti.” Poi, mentre stavano scendendo lungo un camino sopra il campo, “scese come un torrente lungo la parete un’altra valanga di ghiaccio, roccia e neve, che andò avanti senza fermarsi per quasi un’ora.” Dopo più di otto settimane sulla montagna i membri della spedizione erano esausti, feriti e scoraggiati, ma Aleš Kunaver non era uno che mollava: la vetta magari non poteva essere raggiunta – la cresta lunga e tortuosa sopra la parete presentava un ostacolo insormontabile – ma erano ad una sola giornata di scalata dalla cresta sommitale e se solo fossero riusciti a raggiungerla la parete Sud sarebbe stata loro. Aveva capito l’importanza di quella scalata, della parete Sud del Lhotse che all’epoca ben pochi tra i migliori scalatori himalaiani avevano avuto l’ardire di stare anche solo a guardare. Il successo avrebbe consolidato la posizione degli jugoslavi in Himalaya ed avrebbe posto le basi per gli spettacoli futuri.
In quel mentre Franček era al campo base a prepararsi a lasciare la montagna. Lavato e rasato andò verso un masso vicino. “Rinfrescatomi … metto la mano sulla roccia e mi sento riscaldare anche il cuore” disse. «Sento l’appiglio giusto. Inizio a spostare le mani ed i piedi con precisione, con attenzione e in velocità. Afferrare e issarmi con forza, ecco il mio paradiso.” Per Franček la spedizione era già conclusa. Aleš, invece, la pensava in altro modo, era convinto che Franček sarebbe stata la migliore delle scelte per un altro tentativo.
Così, quattro giorni dopo Franček e Vanja ripartirono per la parete. Il su e giù continuo sulla montagna si fermò e tutti gli attori di quel gigantesco spettacolo verticale si misero a guardare ed aspettare. Perfino Franček si sentiva intimidito: “Qui la montagna mostra la sua magnificenza e man mano che la scruti, magicamente puoi sentire la tua piccolezza,” scrisse in Ožarjeni Kamen. “Quanto più a lungo la guardi, tanto più scompari nel nulla.”
Franček e Vanja lasciarono il campo VI alle 5 di mattina del 18 maggio. Si abbassarono di circa 100 metri ed iniziarono una lunga traversata, affondando nella neve profonda fino alla vita. «La pendenza era fortissima e non avevo mai provato una neve come quella,” mi ha detto. “Era davvero come fosse farina, pura farina …. Non facevo altro che scavare.”
Terminarono ben presto la riserva di ossigeno. Alle sette e mezza del mattino comunicarono via radio per la prima volta. La trasmissione fu breve: stavano progredendo, ma nella loro voce si sentiva la tensione.
“La pressione era orribile,” mi disse poi Franček.
“La pressione da parte della spedizione, di Aleš o da cos’altro?” Chiesi.
“No, era solo su di noi e veniva da dentro,” – spiegò -. “Eravamo noi due a portarcela dietro e gli altri nemmeno sapevano cosa stesse capitando o cosa stessimo facendo.”
I pendii nevosi superiori erano segnati da scanalature parallele, tanto da sembrare velluto a coste di neve instabile, uno scenario nel quale si sentirono disorientati. Le cornici erano aggrappate ai bordi, sospese su precipizi senza fondo resi oscuri da una densa nebbia. Franček perse la presa con i piedi ed iniziò a scivolare in direzione di un pilastrino. Riuscì a rimettersi sui suoi passi e andò a piazzare due chiodi in roccia pronta a franare. Più in alto si fece vedere un imbuto di neve perfetta. Al primo passo, però, Franček si rese conto che il sottile strato nevoso copriva lisce placche rocciose, terreno su cui era impossibile far sicura. I due dovevano salire di conserva, fidandosi l’uno dell’altro.
Aleš si era allontanato dal Campo Base, aveva i nervi tesissimi. Con la radio nelle mani iniziò a scrutare la parete. Alle dodici e trenta la radio si mise a gracchiare. Il messaggio era semplice: “Chiediamo il permesso di scendere.”
“Nessun permesso necessario. Fate quel che dovete fare, ” – rispose Aleš. Era appena ripartito con passo incerto verso il campo quando la radio si rimise a crepitare. Il segnale arrivava a salti e dovette faticare per riuscire a capire le singole parole. Avevano cambiato idea: Franček e Vanja stavano andando avanti!
In alto, sulla montagna, la nebbia si era dissolta per un attimo, rivelando l’oscuro contorno della cresta sommitale a sole poche lunghezze di corda. Franček iniziò ad arare la neve pesante per poi salire su un ampio fungo di neve. Questo crollò immediatamente. Iniziò a cadere, dapprima a testa in giù, per circa dieci metri, per poi girarsi nella posizione giusta. “All’improvviso mi trovai in piedi sul pendio con in mano gli attrezzi, pronto ad andare avanti,” disse. “ma solo un pochettino più giù.” Andò a riprendersi quindi il tratto già fatto fino al colatoio successivo.
Le foschie si spostarono ancora, lasciando intravedere stavolta una torre rocciosa ed un intaglio sulla cresta. Un breve ed esposto traverso portò all’intaglio e lì si trovarono sul bordo superiore della parete, a 8250 metri. Era lì che volevano arrivare. Ricoperta di pinnacoli e gendarmi, quella cresta simile alla schiena di un drago si stendeva davanti a loro, per poi scomparire nella nebbia. Un problema per il futuro, a detta di Franček. Chiamarono il campo base per comunicare dove si trovavano e che sarebbero scesi dal versante opposto fino al circo occidentale. Vanja sentiva che la parete Sud era troppo verticale e troppo pericolosa per la discesa. Dieci minuti più tardi Franček inviò un altro messaggio: dopo un’intensa discussione aveva convinto Vanja a tornare per la stessa via dalla quale erano saliti.
Le ore passavano in un pesantissimo silenzio radio. Franček e Vanja stavano lottando per sopravvivere. Grossi fiocchi di neve vorticavano attorno. Quando arrivò il buio si lasciarono scivolare lungo i colatoi, crollando dalla stanchezza, alla deriva in uno stato di torpore ammaliante, dal quale si svegliavano all’improvviso sforzandosi l’un l’altro a continuare. Notavano a malapena le valanghe che passavano strisciando tutt’attorno. Verso la mezzanotte la tempesta andò scemando. Una debole luna emanava una luce spettrale.
La tempesta di neve aveva coperto le tracce della salita e solo in quel momento si resero conto di aver traversato la barriera rocciosa più in alto rispetto al percorso seguito in salita. La corda da 8mm era troppo corta per riuscire a raggiungere il nevaio sottostante con una calata in doppia, così Franček armò un ancoraggio e ci collegò uno dei capi della corda. Non avendo a disposizione discensori o assicuratori, scesero con il sistema tradizionale. Vanja scese per primo, ma, come racconta Franček, “a causa del fatto che scendeva su una corda così fina e per una distanza così lunga la pressione era davvero forte e non riuscì a tenere la posizione inclinata.” Guardò con orrore Vanja perdere il controllo e cadere dritto lungo il pendio… per finire in un provvidenziale cumulo di neve. Dopo che Franček lo ebbe raggiunto continuarono, ma stavolta senza corda.
Alle prime ore del mattino raggiunsero le corde fisse. Con la forza rigenerata, si lanciarono lungo il cordone ombelicale che portava alla sicurezza, dimentichi di tutta la sofferenza, dei dubbi e delle paure. Alle quattro e mezzo della mattina il campo base ricevette un messaggio: dopo ventiquattro ore continue di scalata erano al sicuro al Campo IV. Come scrisse poi Franček, “La saggezza è il premio della sofferenza.”
Il mattino seguente Aleš inviò in patria un messaggio: “PARETE CONQUISTATA, VETTA NO, TORNIAMO.”
Successo e sconfitta talvolta sono stranamente simili. La percezione dell’uno e dell’altra è personale. Era stata salita una linea magnifica, in Himalaya, eppure gli scalatori provavano ben poca gioia. Ci vollero anni prima che Franček si mettesse a raccontare quella scalata, tanto profondamente questa lo aveva colpito. Aveva tenuto questa storia sepolta dentro di sé, temendo che parlarne o scriverne avrebbe potuto distruggere tutta la sua portata. “La sua forza è andata scemando,” – scrisse alla fine. “I miei amici della spedizione sono stati portati via dai venti del tempo come neve polverosa sui pendii della parete sud. Sono rimasti pochi pezzi, luminosi come il cielo stellato.”
Nelle sue memorie Franček ha scritto meno sui dettagli fisici delle sue scalate e ben di più sulle sue sensazioni. Questo, mi ha detto, perché “le emozioni sono l’essenza del tutto”. Le sue descrizioni minimaliste hanno disorientato gli alpinisti che sono andati a ripetere le sue vie e li disorientano ancor oggi. Come spiegato dall’alpinista americano Steve House, “Le sue vie sono un qualcosa di mitologico; esistono solo poche informazioni e ben poche in forma di descrizioni dettagliate o di fotografie.” House dice che ripetere una via di Franček vuol dire “entrare nella testa di Franček Knez. E siccome lui scalava così bene, significa anche dover entrare nella propria testa per trovare la fiducia necessaria ad affrontare uno dei grandi maestri.”
Franček su roccia si muoveva con leggerezza e tranquillità, come un ragno. Era noto anche per sottogradare le proprie scalate. All’epoca prendeva in considerazione il VI+ tanto per indicare una via alpinistica che era riuscito a fare con estrema difficoltà. Se non si era trovato “sul punto di volare,” di certo non era un VI+. Quindi non faceva altro che dare un grado inferiore. Nel 1982 Franček era a cena a casa di Aleš Kunaver e della moglie Dusiča. Da quanto stava emergendo dalla conversazione, Franček era tornato di recente dalle Alpi e stava raccontando di alcune sue avventure. E sì, tra l’altro, aveva anche salito in solitaria l’Eiger lungo la via del 1938 sulla parete Nord… in sei ore. “Sono arrivato ai piedi della parete alle 6 del mattino. Ho fatto colazione e poi ho attaccato la parete…. Con me avevo qualche chiodo,” – disse Franček a Dusiča. “Mi sono fermato per un po’ quando sono arrivato ad un tratto di rocce difficili. Poi ho raggiunto un tratto di roccia scivolosa, ho continuato ed ho raggiunto il ghiaccio. Lì mi sono dovuto concentrare. Dopo un po’ ho guardato verso l’alto ed ho visto che ero sotto il Ragno. Era quasi mezzogiorno quando sono arrivato in vetta.”
“Franček!”- urlò Aleš alzandosi di scatto dalla sedia. “Sei ore per l’Eiger. Ma è un record.” Franček non capiva il perché dell’eccitazione. Quando Aleš iniziò ad insistere perché scrivesse della sua scalata, Franček accettò con riluttanza. Qualche giorno dopo Aleš ricevette una descrizione di una sola pagina. Era la stessa storia che Franček aveva raccontato a cena: colazione alla base, rocce scivolose, il Ragno e un’occhiata all’orologio sulla vetta. Nessuna parola superflua. Nessuna esagerazione.
Da una prospettiva odierna, Franček sembra essere una figura di transizione nella storia dell’alpinismo, un uomo che si è alzato dalle convenzioni del suo tempo per andare ad abbracciare i movimenti del futuro, come le solitarie e le scalate in stile leggero, in piccoli gruppi. Formò cordate memorabili assieme a scalatori più giovani quali Janez Jeglič e Silvo Karo. Nei primi anni ’80 il trio era noto sotto il nome di I Tre Moschettieri e assieme i tre scalarono enormi pareti di roccia in India ed in Patagonia. Poche furono le giornate in cui poteva bastare per Franček una sola via. Tornati in Slovenia arrivarono a scalare in due giorni qualcosa come diciannove vie alpinistiche nuove sul calcare pallido della Vrbanova špica, salendo in free-solo le parti più semplici per praticità. Nel 1983 I Tre Moschettieri andarono nella Patagonia argentina per tentare una via nuova sulla parete Est del Fitz Roy. Il monolito di granito è spesso avvolto dalle nuvole e ricoperto di ghiaccio. Dopo giornate passate a scalare fessure intasate di ghiaccio e placche lisce furono costretti a scendere a causa delle tempeste. Quando il tempo si rimise al bello tornarono alle corde fissate e risalirono con le maniglie Jumar lungo quel filo ghiacciato. Quattrocento metri al di sopra del ghiacciaio Franček con le jumar risalì una corda che penzolava da sopra uno strapiombo “come un ragno su uno spago, un filo appena percettibile.” All’improvviso iniziò a scivolare verso il vuoto. Si fermò, guardando attonito la camicia esterna della corda erosa e lacerata dalle intemperie. Piano, lentamente come non mai, girava su sé stesso, con soli pochi trefoli di corda a trattenerlo. Franček riuscì ad alzarsi, riattaccò una delle sue Jumar al di sopra del tratto di anima lesionata e proseguì. In seguito descrisse quelle sensazioni: “I fili della vita sono sottili e chiunque riesca a salire sul sottile ciglio che separa il “qui ed ora” dal “poi” è capace di riconoscere la vera dimensione della vita.” Frammenti di ghiaccio mentre cadevano continuavano a sferzare le corde e venti forti come quelli degli uragani le sfilacciavano facendole sbattere avanti ed indietro contro il ruvido granito. Eppure questa via così lunga, complicata e pericolosa aveva ormai affascinato Franček. Provava una grande soddisfazione a risolvere i suoi indovinelli. Il suo approccio, unico, per trovare la via, sembrava basato sull’istinto: era in grado di scegliere il percorso abilmente e senza sforzo in mezzo ad un labirinto di rocce selvagge, friabili e sconosciute. Silvo sottolineò che era facile scegliere una linea potenziale da distante, ma da vicino, dove spesso si perde la prospettiva, era ben più difficile. Fu quello il momento in cui ebbe a brillare il talento di Franček. Comprese l’architettura di una parete vista di scorcio, evitando decisioni affrettate che avrebbero portato a vicoli ciechi. Andò invece a scegliere linee che si collegavano ad altre, come quelle della tela di un ragno. L’8 di dicembre raggiunsero il punto in cui la via si riunisce con la via Casarotto, dopo aver portato a termine la prima salita della Hudičeva Zajeda, il Diedro del Diavolo, una linea che termina alta su un colle posto tra la vetta ed il pilastro Goretta. “A volte arrivi a toccare la felicità” – disse poi Franček, “per un momento solo. Ognuno di quei tocchi è parte dell’eternità.”
Nel 1986 tornò in Patagonia con i Moschettieri e parecchi altri sloveni per la Est del Cerro Torre, una parete che si estendeva per più di un miglio in altitudine, simile ad una lama ritorta. Della squadra faceva parte anche un altro maestro della roccia, Slavko Svetičič, noto per le sue ardite solitarie. Il ben noto tempo atmosferico della Patagonia minacciò di farli annegare, con settimane di pioggia battente sulle tende. Dopo un mese erano arrivati a fissare750 metri dei tratti più difficili. La ancora distante vetta, però, era ormai coperta di un bianco strato di brina. Quando la tempesta cessò il Cerro Torre ricomparve, avvolto in uno scintillante rivestimento di color bianco. I caldi raggi del sole colpivano la montagna, facendo partire valanghe sibilanti ed una serie di pezzi di ghiaccio veloci come proiettili. Gli scalatori dovettero annaspare, issarsi e lottare con le corde fisse ghiacciate, ma il 16 gennaio del 1986 tutti e sei salirono in vetta alla Peklenska Direttissima (la “Direttissima dell’Inferno”). L’esperto di Patagonia Rolando Garibotti considera Franček “la forza motrice posta dietro ad un gruppo di scalatori che sistematicamente prendevano come obiettivo tutte le pareti più difficili della zona… In un’epoca in cui buona parte dell’attività alpinistica in Patagonia se ne sta distante dal terreno difficile, quella sua incessante ricerca delle linee più dure possibili risulta essere ancor più significativa.”
Le spedizioni all’Everest ed al Lhotse avevano dato a Franček una notevole esperienza ad alte quote. Però, essendo uno scalatore di precisione, detestava vedere il suo corpo indebolirsi e perdere vigore durante quei viaggi così lunghi e protratti nel tempo, vedere deteriorarsi le sue capacità di scalata su roccia, così minuziosamente affinate. Franček non sopportava questi alti e bassi nelle prestazioni. “Il nostro corpo è il riflesso dei nostri pensieri e delle nostre azioni,” – scrisse; “Noi non viviamo sempre nei nostri corpi. Noi non siamo sempre a casa. Molto spesso noi viviamo nei nostri ricordi e nelle nostre aspirazioni e così diventiamo i padroni assenti della nostra proprietà.” Avevo davanti a me un uomo per il quale ogni giorno era un dono che aveva bisogno di essere vissuto pienamente e per il quale le sue esperienze corporee erano parte di quel dono.
Non amava poi quella necessità continua di mettersi d’accordo e di pensare in termini di gruppo tipici delle grandi spedizioni. Alcuni amici avevano osservato che siccome si muoveva così rapidamente in montagna non poteva andar bene per il passo lento delle scalate himalayane. Scalare per creste e pendii nevosi non lo attirava, esattamente così come non lo attiravano quegli eterni recuperi dei sacchi e quelle eterne risalite con le jumar. Si trovava molto più a suo agio su terreno ripido, preferibilmente su roccia. Amava sentire la roccia, in tutte le sue forme, calcare o granito, solida o friabile. La nitidezza dei minerali e le trame minute lo aiutavano a sentirsi più presente nel corpo e nell’attimo. Le sue scalate Patagoniche furono passi importanti per la sua marcia verso la Torre di Trango, una guglia rocciosa alta 6239 metri, in Pakistan. Dal primo momento in cui Franček vide quel pilastro proteso a tagliare il cielo azzurro come la lama di una spada, rimase incantato. Nel 1987 lui e i suoi compagni Slavko Cankar e Bojan Šrot usarono tutte le armi nel loro bagaglio per la loro nuova via sulla parete Sud – Sud-Est: arrampicata d’aderenza, in fessura, piccole prese da pinzare e balletto finale su difficile ghiaccio alpino. Dopo aver fissato le corde sul primo terzo inferiore della via, continuarono verso la vetta in un singolo tentativo. In Alpinist 11, lo scalatore americano Greg Child definì quell’ascensione “il migliore degli stili dell’epoca” su quella vetta. Quando gli sloveni iniziarono a scendere lungo le corde per la discesa finale al campo base, la loro soddisfazione era completa. “Sono davvero poche le cose fatte veramente bene,” ebbe a scrivere in seguito Franček. “Per me Trango è stata una di quelle.” Ancora inquieto, Knez passò al Meru ed al Bhagirathi in India. Lì portò a termine prime ascensioni su ampie e grandi linee in stile alpino. Per Franček l’obiettivo era semplicemente l’ispirazione e molto più importante era la via per arrivarci. Al di sopra di tutto si fidava delle sue vie.
 Molti scalatori di punta sloveni della generazione di Franček ormai non ci sono più, se ne sono andati per sempre nelle montagne. I loro obiettivi privi di compromessi avevano fatto fare un passo in avanti all’evoluzione fisica e psicologica delle scalate, ma come per così tanti altri pionieri che li avevano preceduti, britannici o polacchi, per esempio, il costo era stato davvero alto. Nejc Zaplotnik sul Manaslu, Stane Belak (Šrauf) sulla Mala Mojstrovka nelle Alpi Giulie, Slavko Svetičič sulla parete Ovest del Gasherbrum IY, solo per citarne alcuni. Franček è sopravvissuto alle sue scalate himalayane e dagli anni ’90 è passato alla creazione di vie lunghe sulle montagne della Slovenia. Scalate difficili su un terreno pericoloso, ma con minori rischi oggettivi.
Poi, nel 1999 la sua carriera per poco non terminò in una piccola falesia locale: Franček si ruppe la schiena quando il suo partner per errore lo lasciò cadere fino a terra. Con l’aiuto di due scalatori arrivò carponi fino alla loro auto, dove poi crollò. Quella stessa notte un chirurgo inserì alcune viti per dare sostegno alle vertebre danneggiate, ma la guarigione di Franček fu lenta. Quando il medico scoprì che una delle viti si era rotta Franček dovette sottoporsi ad un nuovo intervento. Con una vite nuova di zecca e alcuni tubicini di plastica per il drenaggio della ferita Franček dovette sopportare dolori lancinanti. “Ho toccato quel fondo roccioso dove non ci sono più forze e dove tutto si disgrega e diventa polvere,” – scrisse. ” Questa è la croce più pesante che abbia mai portato e sotto di lei mi sento quasi schiacciato. E’ questo l’inizio della decadenza?”
Franček pregò sua moglie di trovare una stanza privata all’ospedale dove poter guarire. “Qualsiasi cosa mi sia rimasta dentro, devo essere da solo,” – disse. Rifiutò le prognosi dei medici che parlavano di sedia a rotelle e di immobilità. In solitudine, diresse tutti i pensieri coscienti e tutti gli atti fisici alla guarigione. Franček passò mesi ad allungare il corpo ferito ed a flettere i muscoli rattrappiti. Alla fine fu in grado di camminare e anche di correre. Nonostante continui a sentire un po’ di rigidità e dolori cronici Franček può scalare ancora. Adesso si limita a monotiri in estate, perché portare pesanti zaini invernali è fuori questione. Scala per la maggior parte in aree segrete che ha sviluppato vicino a casa sua.
Mi ha fatto fare un giro fino alla base di una di queste piccole falesie, indicandomi gli appigli ed i movimenti per quel calcare color gesso. All’ombra di un faggeto, la parete strapiombante si piegava in un arco elegante. Quando andai ad obiettare che l’arrampicata lì dava l’idea di essere piuttosto difficile e faticosa, scosse la testa. “No, non è difficile. E’ interessante,” – disse con un sorriso. Alla base della parete Franček ha costruito una sorta di passerella lastricata, con enormi pietre piatte sistemate in un disegno intricato.
“Perché?” – gli chiesi.
“Così la roccia ed i piedi restano puliti,” – mi spiegò. “Inoltre, perché ha un’aria carina, non sei d’accordo??”
Mentre ci muovevamo alla base di quella falesia così vicina a casa sua pensavo alla sua prolifica carriera di scalatore che spaziava dall’Europa al Sud America e fino all’Asia. Più di cinquemila vie vuol dire aver scalato un sacco. Quando gli chiesi come si era finanziato le scalate mi diede la più ovvia delle risposte: col suo lavoro presso il birrificio, più i soldi guadagnati dalla pulizia e dalla dipintura delle ciminiere. Quando poi gli posi la questione su dove trovasse il tempo per andare a scalare, mi disse: nei fine settimana e dopo il lavoro. E com’è che andava in montagna? Franček faceva autostop, prendeva l’autobus o andava di corsa, se la falesia era abbastanza vicina. “Era una cosa semplice” – disse. “Non era per nulla un problema. Era solo una questione di testa.” Me lo vedevo a trasferire la stessa abilità alle linee tortuose ed ai frustranti vicoli ciechi di pareti sconosciute: solo una questione di testa.
Quando le sue memorie, 0žarjeni Kamen, furono presentate al festival del cinema di montagna a Ljubljana alcuni anni fa, a centinaia accorsero per vederlo. L’unico che mancava era Franček. Non ama le folle.
Attualmente sta scrivendo un altro libro sul suo approccio alla vita. A casa sua gli chiesi di poter vedere cosa avesse scritto. Tirò fuori un notes con pagine e pagine scritte a mano in modo ordinato. Ogni tanto qualche riga era barrata o sbianchettata. Con brevi capitoli intitolati “Potere” e “L’Uccello Magico”, ha più che altro l’aria di un poema in prosa.
“Sai quanto è difficile comporre tutto ciò?” – mi ha chiesto. “Ho lavorato parecchi anni.” Franček continuò: “Qui cercavo la forma delle rima. Non è un poema, ma una riflessione in forma di poema.” Franček è uno scrittore autodidatta ed è molto attento alla scelta delle parole: “Contengono la gioia e la tristezza, la paura, il coraggio, le aspirazioni, l’amore, la sconfitta e quell’insignificante polvere dell’eternità, la felicità. Queste sono tutte cose che hanno lasciato una traccia dentro di me.” E la morte. Ho notato che scrive parecchio sulla morte. Quando gli ho chiesto perché, mi spiegò con un sorriso sornione:·”E’ più vicina della nascita.”
Stavo ancora studiando il suo blocco di appunti quando mi prese per il gomito e mi spinse dentro la stanza vicina. Lì, su una mensola, c’era una scultura di un pesce all’interno di un altro pesce. Legno color miele con spirali e vortici. Poi ancora la fiera testa di un’aquila e il volto di una donna dal profilo regale, con le forme definite dalla consistenza del legno, da liscio come la seta a granuloso e ruvido. Tutte scolpite da Franček. Infervorato, mi ha spiegato quale tipo di legno sia il più malleabile ed evocativo, dove lo trova e come lo sceglie. E’ sempre alla ricerca del pezzo perfetto – che stia camminando nel bosco o che stia riposando in sosta su una cengia a guardare gli alberi al di sotto. Guarda il legno in un modo differente da quello in cui lo guarda la maggioranza della gente, immaginandoci un volto, o un animale o un simbolo. Sospetto che sia lo stesso modo con cui contempla una parete, tracciando nella sua immaginazione una linea da una serie di fessure ramificate e da intasamenti sparsi di ghiaccio, leggendo i motivi nascosti al di sotto dell’apparente disordine della natura e della vita. Mi indicò poi una scultura molto più grande sul pavimento: corpi intrecciati con le curve naturali del legno. Fuori in giardino c’erano dozzine di robuste figure astratte scolpite su calcare grigio chiaro. “Per me sono tutte la stessa cosa,” – mi disse. “Lo scrivere, il legno, la pietra o scalare. Posso andare in tutte le direzioni. Riesco a concentrarmi nello stesso modo. Hanno tutte un denominatore comune”.
Lo stesso istinto sembrava illuminare la sua comprensione della parola scritta e delle possibilità di scultura del legno e della pietra. Ero rimasta meravigliata dalla sua capacità di passare dall’arrampicata alla scrittura ed alla scultura allo stesso modo in cui, su una grande parete sconosciuta, passava dagli strapiombi agli spigoli ed alle placche con grazia sicura. “Devo fluire, come un arcobaleno; devo fluire un po’ qui, un po’ lì, ma non ho un piano,” – disse.
MI soffermai anche sul suo rifiuto di volersi soffermare su una delle sue tante realizzazioni.
Franček diede la spiegazione: “Tutto è governato da una certa armonia e se enfatizzi troppo qualcosa, se lo gonfi, a quel punto non è più reale,” – aggiunse: “Perché isolare qualcosa quando tutto è comunque connesso, come deve… Perché esagerare? “
“Quindi diresti che è questa la tua filosofia di vita?” – chiesi.
“No, no, voglio dire, questa non è filosofia,” – spiegò Franček. “Questa è solo – almeno come la vedo io – la verità. O no?”
Alla fine chiesi a Franček se c’era una scalata che per lui stesse davanti a tutte. Mi guardò e con un sorriso paziente mi rispose: “E’ come andare a prendere un fiore tra tutti gli altri”.
Più tardi, mentre stavo per andar via assieme ad Alan e Silvo, guardai indietro dal finestrino aperto. Franček era ancora davanti a casa sua tra i suoi “fiori” di roccia scolpita. Pensai alla sua caverna, dove sembrava davvero a casa sua. Il corpo scattante ed il volto a riflettere una calma serenità, come la chioma della foresta. Mi tornò in mente di quando una volta scrisse di un posto “idilliaco, solitario”, un regno che non esiste più, una sorta di panorama scomparso nei suoi ricordi d’intensità giovanile. Mi chiedevo se quel piccolo antro l’avesse sostituito. Come lui stesso disse: “La vita è un bel sentiero, misterioso e solitario”.












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