-->
Recensione di
Claudia Catalli
martedì 19 febbraio 2019
Alex Honnold è un
ragazzo introverso che fatica a socializzare. Una cosa, però, la sa fare bene,
anzi, come nessun altro: scalare. Così, montagna dopo montagna, a mani
rigorosamente nude, senza protezioni, si conquista la fama mondiale del free
climber più intrepido, tanto da riuscire a scalare la vetta di El Capitan, sua
ultima leggendaria impresa che ha richiesto ben tre anni di preparazione,
atletica quanto mentale.
La prima scena è da
capogiro. C'è un trentenne che scala un'impervia parete rocciosa in t-shirt,
senza corde. Vertigini si alternano alla voglia di scoprire chi sia costui e
perché si impegni in un'impresa tanto stra-ordinaria.
Si passa subito al
racconto della persona, alla vita trascorsa in un camioncino tra pentole e
docce tutt'altro che confortevoli, allenamenti fisici e appunti quotidiani su
un diario. A metà tra flusso di coscienza e intervista, Alex Hannold si
racconta al suo amico Jimmy Chin, regista e climber professionista, che lo
segue in tutti i sensi. Ci illustra le copertina dei giornali dedicate
all'atleta, ma anche la filosofia del ragazzo che, malgrado la fama mondiale, è
rimasto se stesso: un appassionato di arrampicata a mano libera, tra sudore,
polvere di roccia, volatili e sole.
Ha un QI più alto della media e il centro di controllo della paura (amigdala) inibito dagli anni di allenamento senza tener conto delle paure, eppure resta un ragazzo modesto, semplice, alla mano.
Immancabile il flashback sulla sua infanzia, con tanto di repertorio fotografico: Alex era un bambino "timido e malinconico", che preferiva arrampicarsi piuttosto che parlare con chicchessia. La fortuna è stata, per lui, poter trasformare il proprio hobby in una carriera dove l'unico, non indifferente, limite è che un solo passo fuori posto può essere fatale.
Ha un QI più alto della media e il centro di controllo della paura (amigdala) inibito dagli anni di allenamento senza tener conto delle paure, eppure resta un ragazzo modesto, semplice, alla mano.
Immancabile il flashback sulla sua infanzia, con tanto di repertorio fotografico: Alex era un bambino "timido e malinconico", che preferiva arrampicarsi piuttosto che parlare con chicchessia. La fortuna è stata, per lui, poter trasformare il proprio hobby in una carriera dove l'unico, non indifferente, limite è che un solo passo fuori posto può essere fatale.
C'è il tocco e la
sensibilità della co-regista Chai Vasarhelyi nella descrizione, poi,
dell'incontro che colora la vita di Honnold, quello con Sanni McCandless,
grazie alla quale scopre il significato del verbo abbracciare e, in sostanza,
amare. Ma un free climber può permettersi di abbandonarsi ad una relazione? Il
film lascia che questo interrogativo si insinui, sottolineando la filosofia da
guerriero del protagonista: da una parte l'abnegazione totale e la necessità di
concentrarsi sull'obiettivo al 101%, dall'altra la ricerca della perfezione
nell'impossibilità dell'errore. Nel mezzo la maestosità della natura, il
trionfo di rumori e colori, l'arcobaleno che spunta involontario e regale tra
le cascate.
Il lavoro di Chin non è invidiabile solo a livello di montaggio (due anni di riprese, per un totale di circa 700 ore di girato) ma anche e soprattutto da un punto di vista umano: è un documentario "in arrampicata", girato scalando tutti quanti, protagonista e troupe, in uno strano mix di adrenalina e paura condivisa di rischiare di riprendere l'irriprendibile.
È un film potente e coraggioso, Free Solo, di indubbio impatto emotivo, ma anche esteticamente ricercato. Colpisce l'attenzione ai dettagli, dal tocco di una roccia simile a una carezza fino al rito di allacciarsi le scarpe, convince il focus sullo spirito prima che sull'impresa. Paradossalmente Honnold avrebbe potuto non arrampicarsi mai, il film non ne avrebbe risentito. Perché mira a raccontare la precarietà della condizione umana che solo il coraggio e l'accanita preparazione di un uomo possono sfidare. E vincere, addirittura: quando raggiunge la cima di El Capitan, un obiettivo dichiarato impossibile da tutti prima di lui, Honnold sancisce il trionfo della finitezza umana sull'infinito. Questa la vera forza di un documentario giustamente candidato agli Oscar dopo aver vinto ai Bafta, suggellato dalla perfetta canzone di Tim McGraw: "Gravity is a fragile thing".
Il lavoro di Chin non è invidiabile solo a livello di montaggio (due anni di riprese, per un totale di circa 700 ore di girato) ma anche e soprattutto da un punto di vista umano: è un documentario "in arrampicata", girato scalando tutti quanti, protagonista e troupe, in uno strano mix di adrenalina e paura condivisa di rischiare di riprendere l'irriprendibile.
È un film potente e coraggioso, Free Solo, di indubbio impatto emotivo, ma anche esteticamente ricercato. Colpisce l'attenzione ai dettagli, dal tocco di una roccia simile a una carezza fino al rito di allacciarsi le scarpe, convince il focus sullo spirito prima che sull'impresa. Paradossalmente Honnold avrebbe potuto non arrampicarsi mai, il film non ne avrebbe risentito. Perché mira a raccontare la precarietà della condizione umana che solo il coraggio e l'accanita preparazione di un uomo possono sfidare. E vincere, addirittura: quando raggiunge la cima di El Capitan, un obiettivo dichiarato impossibile da tutti prima di lui, Honnold sancisce il trionfo della finitezza umana sull'infinito. Questa la vera forza di un documentario giustamente candidato agli Oscar dopo aver vinto ai Bafta, suggellato dalla perfetta canzone di Tim McGraw: "Gravity is a fragile thing".
1 commento:
complimenti per l'Oscar come miglior documentario
Posta un commento