lunedì 1 settembre 2008

CIAPIN ED IL TORRE

"QUOTIDIANO "LA PROVINCIA" 31 agosto

Il suo Torre era la scure del mondo
«Primi sulla vetta impossibile»

Non credeva alle salite di Maestri, con la scalata del ’74 aveva fatto scuola
ADDIO "CIAPIN"
Lecco piange Daniele Chiappa:
era l’anima del Soccorso alpino.
Prima Ragno e poi Gamma, Accademico del Cai, aveva iniziato ad arrampicare a soli 13 anni
La sua impronta nell’evoluzione del pronto intervento delle cime anche a livello nazionale.

Il Torre, il Torre. Senza bisogno dell’altra parola, Cerro, che lo precede sulle carte geografiche del profondo Sud America che chiamiamo Patagonia. Il Torre, al quale Daniele Chiappa, "Ciapin", ha legato il suo nome, nel 1974 e per sempre, con gli altri Ragni della squadra guidata Casimiro Ferrari in un’impresa diventata leggenda. Una cima unica, senza uguali, per questo identificabile già solo con un articolo determinativo. Genere maschile: il. Non a caso lo stesso della parola sogno. Lui, insomma, opera d’arte di roccia e ghiaccio, padrone delle tempeste, signore delle vertigini, lui e nessun altro.
Dicevano che fosse impossibile, quella montagna.
Per quanto Cesare Maestri avesse raccontato di averla salita e risalita – la prima volta nel 1959 con l’austriaco Toni Egger poi ucciso da una valanga, la seconda a colpi di compressore nel ’74 - gli alpinisti non avevano cambiato idea. Non avevano bisogno di cavalcare le polemiche e di mettere in dubbio (come sarebbe accaduto) ciò che lo scalatore trentino andava ripetendo. Il solo pensiero di salire il Torre lasciava stupefatti, metteva i brividi, toglieva il sonno, spezzava il fiato, in qualche modo dimostrava persino l’esistenza di Dio. Daniele Chiappa a 22 anni aveva avuto il dono di guardare il mondo da lassù, in realtà di immaginarlo al di là del biancore lattiginoso da orzata del whiteout, nel quale era finito immerso con i suoi gagliardetti orgogliosamente esibiti alle macchine fotografiche. Non si era spiegato, e non l’aveva nascosto, perché un prodigio di quella specie gli fosse toccato in sorte. Certo, con i suoi compagni aveva sputato più dell’anima per riuscirci, scoprendo di poter scalare anche su difficoltà che non aveva mai affrontato né osato immaginare. Ma che un ragazzo pazzo per il verticale come lui potesse avere tra le mani qualcosa di simile (cioè apparentemente "tutto") all’età in cui di solito si comincia soltanto a sognare, questo non si poteva chiamare diversamente se non dono. «Ciapin, ghe l’em fada» gli aveva gridato in cima il Miro, abbracciandolo scosso dal pianto. Erano rimasti in quattro, lassù, con gli ultimi viveri e le ore contate. Ferrari era in cordata con Mariolino Conti. Chiappa, con Pino Negri. E sì, ce l’avevano fatta. Giocando con la lingua dei peones, Daniele da allora si definiva «el terriero hombre de la cumbre, "la" cumbre». Già, era stato il terzo a sbucare sopra il Fungo. E anche in un precario spagnolo la vetta aveva quel suo
bravo articolo determinativo a precederla, questa volta al femminile: la, in ogni caso quella e non un’altra, cioè la vetta delle vette. Il Torre, il Torre. Per il mondo, il Grido di Pietra. A Chiappa, pieno fino all’orlo della magica esperienza, non bastava neanche questo soprannome di pur straordinaria suggestione. Aveva coniato quella sua altra definizione: "la scure del mondo". E aveva colpito nel segno, visto che il simbolo della Patagonia può essere pensato anche come una gigantesca lama. Taglia il tempo in due, in fondo: separa un prima da un dopo. Perché, per chi arriva là sopra con mezzi leali, nulla è più come era: quella scalata cambia dentro anche quando non modifica l’esteriorità di una vita.
Un monumento? Forse. Non però nel senso di una retorica passatista, vuota, da tromboni sfiatati.
Piuttosto un punto di riferimento e di osservazione, una lente utile per la lettura del presente e del futuro dell’alpinismo lecchese – della sua identità e progettualità - sullo sfondo della scena italiana e internazionale.
Ci sono stati docenti universitari che hanno chiesto a Daniele Chiappa di raccontare quella sua esperienza della Ovest in corsi per manager, perché le scalate a volte sono in grado di spiegare anche ai dirigenti d’azienda quali miracoli possa fare una squadra che crede in un obiettivo. Ci sono stati locali pubblici - è accaduto poco più di un anno fa nel Molise - che hanno scelto il nome "Ciapin" e la sagoma del Torre come insegne. E ci sono state anche negli ultimi anni decine di occasioni nelle quali Daniele è stato chiamato in giro per l’Italia a ri-raccontare la meravigliosa storia dei maglioni rossi aggrappati a una montagna "impossibile", una storia diventata spettacolo multimediale a ritmo dance, capace di riconsegnare brividi e stupori.
Il Torre, il Torre. Ha vissuto troppo poco, Daniele, come altri due dei suoi compagni di vetta: Casimiro, il leader che Chiappa venerava, e Pino, l’altra metà della sua cordata. Ma ha avuto il tempo di convincersi che la magica squadra del ’74 era stata la prima sulla montagna più bella e difficile del mondo. A Cesare Maestri, "Ciapin" non credeva più. La straordinaria scalata di Ermanno Salvaterra e compagni sul misterioso versante Nord del Grido di Pietra e il "rapporto" che ne era scaturito (zero tracce di precedenti passaggi, luoghi diversi da come erano stati descritti, difficoltà estreme anche valutate con la logica del Duemila e dunque considerate non affrontabili mezzo secolo prima, ghiaccio inconsistente e progressione improteggibile) gli avevano dato la definitiva certezza che lassù nel 1959 non era mai passato nessuno.
"Ciapin" non si spiegava perché fosse stato raccontato il contrario, questo no. Ma non aveva dubbi che le cose fossero andate diversamente. E poiché lo stesso Maestri nel 1970 aveva detto di avere rinunciato a scalare la calotta ghiacciata del Torre quando aveva annunciato la seconda vittoria, Chiappa si era deciso al gran passo e aveva chiesto, invano, che anche la sua città rivendicasse formalmente quel primato.
«Adesso lo so» ci aveva confidato due anni fa: «I primi in vetta siamo stati noi». Dicendolo sorrideva beato. Come se la vita, dopo aver rimescolato un po’ troppo le carte, si fosse finalmente decisa a rimettere le cose al loro posto, a restituire a un ex ragazzo di Lecco quel che gli aveva tolto dopo il dono meraviglioso della "cumbre".
Ora quel ragazzo si è arrampicato più su. Sorride ancora, mentre noi piangiamo.

Giorgio Spreafico

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ermanno, grazie per la tua presenza ieri... Federico, il figlio di Daniele è spiaciuto di non averti visto, ma ti ringrazia e spera di incontrarti in futuro!

un bacione!
Claudia