Sono al mio rifugio. Beh, non è proprio mio e nemmeno del mio papà ma siamo qui da tanti anni che comunque è casa nostra. Lo scorso gennaio ho compiuto 7 anni ma non so ben che cosa significhi questo. Il mio papà Adolfo, un giorno, ha detto che quando si compiono i 7 anni si è raggiunta l’età della ragione. Chissà cosa avrebbe voluto dire… Il mio ppà non è uno che parla tanto, che parla troppo. Nemmeno con me o coi miei fratelli. Ma si capisce, o almeno lo capirò dopo, quanto mi vuol bene e quanto ci tiene a me, il suo primo maschietto. Passeranno molti anni perché riesca veramente a capire tutto questo.
Passo tutto l’estate al rifugio facendo un sacco di cose, almeno così sembra a me, e cosette. Un giorno lui, il mio Grande papà, con due parole mi dice di seguirlo. In mano ha un “coso” lungo, più alto di me. Un legno con una punta da una parte ed un piccolo badile dall’altra. “E’ una piccozza” mi dice. Un "ferro" con cui gli alpinisti scalano le montagne di ghiaccio. Cominciamo a camminare. Lui davanti a me col suo passo lento ma continuo. Tiene la testa bassa e le mani raccolte dietro la schiena. L’ho sempre visto camminare così mio padre. Dopo solo una mezz’ora, davanti a me, una colata strana. E’ tutto ghiaccio. Il fronte del Ghiacciaio d’Agola. Saliamo sulla destra stando sulle rocce e ghiaie mentre, estasiato dai colori del ghiaccio, continuiamo ad aggirare quella massa immobile. C’è il bianco, l’azzurro, il blu, il blu scuro, il nero… sono talmente belli quei colori che sembra ci siano tutti anche gli altri. Poi il ghiacciaio diventa quasi pianeggiante e, con un passo, stiamo camminando proprio sopra di esso. Il ghiaccio è strano. Pensavo al ghiaccio come a qualcosa di estremamente scivoloso. Come il vetro. No, è una sensazione bellissima. E’ tutto a bollicine concave e convesse che formano come dei chiodi sotto le scarpe e non si scivola per niente. Poi mio papà mi fa sdraiare sul bordo di un piccolo crepaccio e mi fa toccare la parete che scende verticale nel buio. “Ma qui è proprio ghiaccio” gli dico. E’ veramente scivoloso come il vetro su cui qualcuno ha passato anche il sapone.
Allora mio papà mi dà quell’attrezzo in mano. E’ bellissimo avere quella piccozza fra le mani. Ogni tanto la prendo in alto ma è troppo grande e me la posso solo trascinare. Mi piace lo stesso però…
Poi la uso come un piccone e faccio dei piccoli buchi. Mi piace più del piccone perché ha il manico più lungo, la punta è più affilata, pesa meno e non è così arrugginita. E’ proprio più elegante del maschio piccone. Forse proprio per quello l’hanno chiamata “piccozza.”
Chissà come fanno gli alpinisti ad usarla. Ma loro sono grandi, anche di statura e, sono forti, hanno i muscoli e sanno fare le scalate sulle montagne più difficili del mondo. Io invece sono piccolo, gracile e sto quasi in piedi a fatica.
Ritorniamo sulle grigie rocce finché arriviamo a un ripido canale di neve che riporta all’inizio del ghiacciaio. Saliamo a cavalcioni della piccozza. Lui è davanti e io lo tengo in vita come quando siamo a casa ed andiamo in Lambretta. A metà canale mi grida di tenermi forte. La velocità aumenta e lui prende quel ferro lucido e, puntando i piedi, alza la piccozza per frenare. In fondo ci fermiamo a poco dalle rocce. Non so lui, ma io sono estremamente soddisfatto. Mi metto il ferro in spalla e, quasi baldanzoso, vado verso il rifugio con mio padre che mi segue.
3 commenti:
Non ho eliminato nessun post io. Caio ermanno
...che bello, piccole cose che la prospettiva del bimbo fa grandi per sempre... raccontane altre
Mauro
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